NETWORK DI STUDIO
DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER

ALZHEIMER – E.I.T.
UNA TERAPIA POSSIBILE

Dott. Romeo Lucioni 

Negli ultimi anni, si sono moltiplicati in forma sorprendente i lavori scientifici sulla demenza che evidenziano l’interesse degli scienziati di tutto il mondo per un "flagello" che sembra aumentare a vista d’occhio. Oggi, si calcola che nel mondo ci siano 18 milioni di dementi e che in Italia il loro numero si aggiri intorno al milione.

La prevalenza della demenza subisce un aumento in rapporto all’età:

2,8 % tra i 65 ed i 74 anni;

9 % tra i 75 e gli 84 anni;

28 % tra gli ultraottantenni.

Oltre i 90 anni, si calcola una prevalenza stabilizzata, ma ancora controversa, sul 45 %; dati recentissimi parlano di percentuali dell’ 11% nella popolazione tra gli 80 e gli 85 anni e del 25% tra gli ultra-85-enni.

Seppure l’età possa essere considerata come un fattore di rischio, resta chiaro che la vecchiaia non è una causa della malattia, tanto più che si moltiplicano gli ultracentenari che non dimostrano segni evidenti di compromissione patologica delle facoltà cognitivo-intellettive.

La parola demenza ha una etimologia latina (demens -entis) e col significato di "mancanza di giudizio" è stata usata da Cicerone e, nelle Bucoliche, da Virgilio (Quae te dementia cepit?). Oggi si applica alle alterazioni mentali con evoluzione progressiva verso la disgregazione delle funzioni intellettive di base, della condotta sociale, dell’intelligenza e della personalità.

Tra le demenze, la Malattia di Alzheimer è, senza dubbio, la più frequente, rappresentando, infatti, il 50-60 % dei casi, mentre il 10-20 % si riferisce a cause vascolari, il 5-10 % a forme miste; il 10-20 % a demenze reversibili.

In Italia, si calcola una prevalenza di malattia del 3 %, tra gli individui con più di 60 anni, con una incidenza di 2,4 nuovi casi su 100.000 abitanti con età tra i 40 ed i 60 anni e 127 nuovi casi su 100.000 per età maggiori di 60 anni.

La malattia di Alzheimer è una demenza degenerativa cronica e progressiva, con un decorso che vede una sempre più elevata compromissione delle funzioni mentali e cognitive. L’aspettativa di vita dopo l’esordio è di circa 7-10 anni, seppure alcuni pazienti raggiungano i 15-20 anni di sopravvivenza.

Da un punto di vista clinico, la sindrome presenta una notevole variabilità dal momento che i sintomi che possono presentarsi sono moltissimi e interessano, inoltre, diverse aree:

BILANCIO CLINICO

Atteggiamento

- abbigliamento disordinato;

- agitazione psicomotoria;

- agnosia, aprassia, afasia, alessia;

- incostanza;

- isolamento e contatti interpersonali estremamente brevi;

- alterato modo di presentarsi: sporcizia, trascuratezza, disordine.

Comportamento

- difficoltà ad iniziare qualsiasi attività;

- disturbo dello svolgimento delle attività quotidiane;

- ossessività a toccare tende, oggetti, stracci, lembi del proprio vestito, ecc.;

- compulsività alla pulizia, all’ordine, alla sottomissione "filiale";

- scarsa iniziativa psicomotoria;

- stereotipie;

- tempi di reazione lunghi (le difficoltà di comprensione richiedono uno sforzo);

- propensione ad interrompere il colloquio;

- tendenza ad essere irridente;

- ripetitività ossessiva dei movimenti;

- deambulazione ossessiva ed afinalistica;

- attività: incongrua, assurda, reiterativa, disordinata, oppure ridotta o abolita;

- iniziativa: ridotta sino all’abulia

- perdita dell’adattamento vitale

- incapacità di autoregolarsi.

Psicomobilità emotiva

- incontinenza delle espressioni emotive;

- tendenza alla "fuga" e ad abbandonare ciò che sta facendo;

- instabilità emotiva;

- irritabilità;

- spiccata reattività agli stimoli;

- turbe dell’umore;

- scarica aggressiva di fronte alla frustrazione;

Psicomobilità affettiva

- competitività;

- conflittualità;

- depressione immotivata (legata a sensi profondi di inferiorità e di incapacità);

- difficoltà relazionali;

- dipendenza relazionale (non distoglie lo sguardo dalle labbra di chi parla);

- egocentrismo ed infantilismo;

- grandi difficoltà nel contatto interpersonale;

- incapacità ad adeguarsi alle necessità dei compagni:

- indifferenza di fronte agli errori o alle difficoltà (reagisce quando viene ripreso)

- disinteresse vigile nei confronti dell’ambiente;

- iniziativa individuale che non rispetta il gruppo;

- mancanza di motivazione;

- carenza di collaborazione;

- opposizione (si rifiutano di seguire le indicazioni);

- perdita dell’affettività;

- pigrizia mentale e modesta tenuta;

- scarsa attenzione sia eterodiretta che monodiretta;

- inadeguato interesse per le percezioni e per le occupazioni;

- reazioni aggressive immotivata o sottese a stimoli emotivi intimi.

Capacità cognitive

- disturbi della memoria (nomi, oggetti, date, indirizzi, numeri telefonici);

- disfunzione delle capacità deduttive (riconoscere un volto, le stanze, il quartiere);

- difficoltà nella ricostruzione delle figure;

- incapacità a ricostruire figure tridimensionali;

- confusione mentale;

- deterioramento mentale generale, del raziocinio e dell’intelletto;

- difficoltà nella comprensione;

- disorientamento in luoghi sconosciuti;

- disorientamento spaziale in posti conosciuti;

- disorientamento temporale (stagione, anno, mese);

- frammentarietà della comprensione;

- incapacità a riconoscere: il personale che li assiste;

- la propria immagine;

- le persone che vedono saltuariamente;

- i famigliari;

- difficoltà di apprendere dall’esperienza;

- mancanza di senso pratico;

- incapacità di correggere l’errore, se non casualmente;

- scarsa consapevolezza del proprio corpo;

- carenza di puntualizzazione dei propri bisogni e delle proprie necessità;

- mancanza di applicazione;

- insufficiente autonomia di giudizio;

- perdita dell’organizzazione spaziale e temporale;

- deficit della memoria che provoca: interpretazioni deliranti, spunti deliranti

persecutori, delirio di persecuzione;

- perdita di obiettivi e di traguardi;

- turbe mnesiche di fissazione, di rievocazione a medio termine e mantenimento

di isole di quella a lungo termine.

Modalità espressive

- delirio di persecuzione (o interpretazioni deliranti, o spunti deliranti);

- difficoltà nella concentrazione (ascolta distrattamente);

- modalità di pensiero paranoidi o isteriche o ossessivo-compulsive;

- lentezza eidetica ed eloquio frammentario;

- ilarità non giustificata;

- perdita della spontaneità;

- illogicità del discorso;

- impossibilità a mantenere l’attenzione pur dimostrando dipendenza relazionale

(non distoglie lo sguardo dalle labbra di chi parla);

- linguaggio incoerente ed incomprensibile per la comparsa di neologismi;

- riduzione della espressività mimica, che si adegua più ai contenuti personali che a quelli relazionali.

Seppure si siano fatti grandi passi avanti, la malattia di Alzheimer presenta ancora molti interrogativi per quanto riguarda una diagnosi sicura, così sono innumerevoli i dubbi epidemiologici e, di conseguenza, ancora incerti risultano i dati sulle problematiche socio-assistenziali, sul costo sociale ed anche sulla efficacia dei farmaci e sulle tecniche palliative impiegate su larga scala soprattutto per migliorare la qualità della vita e dare un supporto ai famigliari ed ai caregivers.

Le ricerche per definire i risultati (outcome research) non sono ancora riuscite a quantificare la capacità di curare, il livello di miglioramento della salute e della qualità della vita, ottenibili con le diverse modalità di intervento.

Per evitare una valutazione soggettiva e quindi riportare le analisi su di un piano di oggettività e di scientificità, sono state intraprese diverse metodologie che, però, devono affrontare molte difficoltà dal momento che gli studi stessi modificano il background (per esempio, un certo grado di apprendimento delle risposte rende problematica la somministrazione di test di livello in maniera successiva); la variazione delle aspettative del circolo sociale che influenzano i comportamenti e le richieste; la difficile valutazione delle modificazioni indotte sul senso di benessere e su quello di malattia percepiti dal malato che, inoltre, non può riferire con chiarezza e sicurezza i vissuti personali. Per questo motivo, sono stati definiti alcuni standard di valutazione che devono tener conto di:

§ la struttura: si riferisce all’organizzazione di una specifica istituzione, alle risorse offerte per la realizzazione di un determinato progetto, per la gestione di un servizio (organizzazione, funzionalità, adeguatezza degli spazi e delle attrezzature, numero e professionalità degli operatori);

§ il processo: definisce gli obiettivi e le linee guida degli interventi, le modalità di erogazione, le metodiche di adeguamento e di confronto;

§ gli outcome: si relazionano con i risultati ottenuti sulla popolazione trattata e/o osservata, tenendo conto di parametri complessi e delle loro variazioni al momento della presa in carico e quello dell’osservazione che può essere in vari tempi successivi.

Questo approccio ha portato a stabilire indici obiettivi dei risultati, più idonei alle valutazioni di malattie croniche che solo lievemente vengono modificate anche in tempi lunghi. Si è potuto quindi parlare di rallentamento dell’evoluzione clinica e di spostamento della curva attesa del decadimento.

Tenendo conto degli obiettivi logici della terapia, che non possono più essere rivolti solamente alla guarigione, l’analisi dell’efficacia di qualsiasi trattamento, nel caso della malattia di Alzheimer, considera una serie di risultati tra i quali:

§ il miglioramento delle funzioni cognitive, compresa la memoria misurata

utilizzando semplici test psicometrici;

§ che le modificazioni siano clinicamente significative;

§ l’impatto di ogni progresso sulla funzionalità e sul comportamento;

§ la possibilità di quantificare anche miglioramenti del funzionamento psichico e

mentale, oltre che delle manifestazioni sottese a psicodinamiche profonde.

Un aspetto nuovo di questo approccio sta nel fatto che si tengano ormai conto anche degli aspetti sociali e culturali che investono il paziente, la famiglia ed i caregivers, oltre che la loro qualità della vita.

Queste osservazioni danno un’idea anche sommaria di quanto sia cambiato, parlando di Alzheimer, l’approccio alla malattia e di come si siano potute sviluppare, accanto alle ricerche di farmacocinetica e di farmacodinamica, anche gli studi sui cosiddetti interventi palliativi che hanno portato a coniare il concetto di "palliazione" da affiancare a quello classico di "guarigione", riscattando molti interventi di tipo psicoterapeutico.

TERAPIA NON FARMACOLOGICA

Accanto alla ormai ben nota "reality orientation therapy" (ROT), possiamo annoverare la terapia occupazionale, quelle comportamentali, le terapie cognitive (la memory training), quella di rimotivazione, la validation therapy, il training sensoriale e la psicoterapia.

In questo ordine di pratica terapeutica, la nostra esperienza si è focalizzata sul recupero delle funzioni psico-mentali di base e, attraverso varie esperienze come la "terapia sensomotoria", la "terapia emotivo-affettiva", quella "espressivo relazionale", insieme allo "psicodramma" e alle esperienze di "psicodanza" e di "Biodanza", siamo arrivati a strutturare un intervento psico-terapeutico che abbiamo chiamato E.I.T. - terapia di integrazione emotivo-affettiva.

Il metodo si basa su precise considerazioni teoriche che hanno il loro fondamento nella psicologia dell’Io e sul funzionamento psico-neuro-biologico delle strutture ipotalamo-limbiche, quelle cortico-frontali e, in ultima analisi, dell’integrazione neurofunzionale dell’emotività, dell’affettività e delle funzioni cognitivo-intelletttive.

Le psicoterapie, nel loro insieme, sono considerate trattamenti rispettosi della persona e atti non solo alla "cura", ma anche alla maturazione della personalità. La presenza poi di una esplicita "teoria del funzionamento mentale" dovrebbe dare un carattere di scientificità che, in un’epoca nella quale, nell’ambito della salute, è necessario rispettare il diritto dei cittadini di fruire di prestazioni ottimali in ragione dell’incidenza di un loro costo rilevante, viene chiamata in causa come supporto etico e morale sul tema dell’efficacia e della validità.

Nel caso dell’ E.I.T. come intervento psicoterapeutico possiamo dire che ci si fosse limitati ad osservazioni psicodinamico-interpretative saremmo caduti nel semplicismo ed in atteggiamenti tizioristici per i quali la "verità" è un puro e semplice esercizio di captazione di significati per lo più personalistici. Negli ultimi anni, nell’area delle scienze umane, hanno acquistato importanza atteggiamenti investigativi più vicini ad una posizione che tende ad eliminare la frattura tra la pura interpretazione e la necessità di validazioni provate.

Situata in questo nuovo modello di approccio psico-neuro-biologico, l’ E.I.T. tiene conto e si fonda su precise articolazioni strutturali e neuroepidemiologiche per le quali si richiede uno studio ed un controllo costanti.

La terapia è nata da osservazioni e ricerche medico-terapeutiche applicata a ragazzi disabili psichici; proprio per questo motivo questa tecnica è sostanzialmente e chiaramente una "psicoterapia con propensione alla ricerca".

Le basi teoriche implicate nell’ E.I.T. hanno permesso la strutturazione di una "psicologia della mente" che presuppone una costante integrazione tra i livelli fondamentali che si definiscono come "emozioni", "affetti", "cognizioni".

Il processo integrativo che sta alla base dello sviluppo psichico dell’uomo diventa quindi la base fondamentale della terapia, lasciando intendere che ogni disturbo psichico ed anche ogni disturbo fisico con concomitanti psichiche importanti (leggi "disturbi di tipo psicosomatico") hanno le loro giustificazioni in un disequilibrio della integrazione emotivo-affettiva.

L’E.I.T. non si basa su desideri di portare aiuto psicologico a pazienti, per la cui condizione frustrante di inesorabile decadimento possono solo essere "accompagnati" nel loro triste destino, in realtà i risultati ottenuti con altri pazienti affetti da autismo o da turbe profonde della personalità, hanno portato a sperare di ottenere importanti risultati curativi anche con i pazienti Alzheimer, soprattutto dopo le osservazioni per le quali meccanismi mentali e psicologici, più o meno profondi, potevano essere accostati a turbe della struttura dell’Io.

Il disordine di questa fondamentale struttura psichica altera tutte le performances psico-mentali, così si possono osservare:

AREA MOTORIA

  • incapacità a realizzare prestazioni psicomotorie complesse dal momento che sembra perso il ricordo della consequenzialità dei movimenti atti ad un preciso risultato, oltre che reso incomprensibile il meccanismo di uno spostamento ritmico;
  • l’iniziativa psicomotoria si riduce a prestazioni abitudinarie ed istintive, come quella del camminare, seppure, anche in questo caso, appaiono delle limitazioni che portano a spostarsi con passi brevi e goffi; si spostano solo in avanti perché retrocedere diventa quasi impossibile;
  • tendenza a ripetere un movimento, così da presentare "aspetti autistici" come sono quelli di non riuscire a restituire, per esempio, un pallone o un cuscino (il ricevere dipende da meccanismi istintivi);
  • pauperizzazione della coscienza come conseguenza della riduzione dell’esperienza dovuta ad un chiusura sempre più importante sul sé;

AREA EMOTIVA

  • incapacità a contenere le risposte emotive, sia per la difficoltà di dare un giusto significato agli accadimenti, sia per un deficit dell’inibizione corticale (affettivo-intellettiva) sulle strutture del cervello limbico;
  • prevalenza di costrutti mnesici arcaici che pone l’ Io di fronte a vissuti infantili (generalmente il rapporto con la madre) di tipo limitativo e castrante, i quali dimostrano una struttura Super-egoica cannibalica e distruttiva;

AREA AFFETTIVA

  • l’incapacità di strutturare oggetti interni validi e, soprattutto, persistenti (determinata dai deficit mnestici e di astrazione-deduzione) porta ad una superficialità nei rapporti interpersonali che esauriscono la partecipazione in più o meno modeste risposte empatiche;
  • l’ Altro assume una dimensione fugace di "concomitanza" anche perché viene istintivamente percepita una "differenza" che fa del rapporto un incontro slivellato; anche se si fanno sforzi notevoli per stabilire un contatto, questo, se mantenuto su linee verbali, non riesce a trattenere l’attenzione del paziente per più di qualche attimo: ciò contrasta con i dilatati periodi di "conversazione" che due o più pazienti Alzheimer riescono a mantenere tra loro ed ai "momenti di lavoro" ai quali questi pazienti partecipano spinti da sentimenti istintivo-automatici di sovrapposizione e di imitazione, quando partecipano, in gruppo, per esempio, alla "lettura" del giornale e/o all’ascolto di brani musicali.

AREA COGNITIVA

  • struttura del pensiero basata su forme precognitive ed istintive;
  • incapacità di scegliere se non rispondendo ai bisogni e ai desideri;
  • insufficienza dei sistemi deduttivi alienati da meccanismi globali e

simbolico-concreti;

  • impossibilità di "giudicare", ponendosi in una dimensione acritica di "verità";
  • incapacità a riconoscere il proprio schema corporeo;
  • "aprassia ideativa" nelle azioni motorie complesse;
  • alterazioni profonde della coscienza che determinano errori nella rievocazione

mnesica e nella percezione;

  • disturbo dell’attenzione;
  • difficoltà a mantenere "on line" i propri scopi;
  • deficit dei processi necessari al controllo dell’azione e, quindi, anche del

pensiero che è azione mentale;

  • difficoltà a sentire le esperienze come proprie.

Queste osservazioni hanno aiutato notevolmente a strutturare l’intervento pratico dell’ E.I.T., che si sviluppa appunto sulle linee guida della motricità, del controllo emotivo, dello sviluppo delle relazioni espressivo-affettive e sul recupero di "significati" capaci di adesivare le esperienze ed i vissuti, traducendoli in termini accessibili e comprensibili.

L’ E.I.T. ha le sue fonti teorico concettuali nella pratica clinica ispirata a principi antropologici, etologici, psicologici e sociologici, della psicodinamica, dello psicodramma, della psicoterapia di gruppo ed è centrata sull’espansione della coscienza ed il potenziamento della volontà attraverso la riscoperta di un Io valido e potenzialmente creativo. È un sistema che mira all’integrazione ed allo sviluppo delle potenzialità emotivo-affettive, attraverso diverse tecniche appropriate alle necessità ed ai bisogni terapeutici, che aprono la via a una strutturazione armonica ed emodinamica dell’ Io e della personalità.

Integrazione significa armonia e coerenza dei legami dell’ Io che, come funzione psichica, necessita di un continuo adattamento alle spinte istintive ed alle necessità Super-egoiche che fluiscono dall’esperienza.

Il modello operativo tiene conto, inoltre, di vari fattori concomitanti che rivestono una grandissima importanza:

 l’uso della musica. Questa applicazione risulta insostituibile perché attraverso il ritmo, il tono, la strofa musicale e l’intensità della musica si possono ottenere risposte e/o determinare atteggiamenti psico-mentali precisamente voluti. Molte volte capita di dover utilizzare ritmi vivaci per stimolare la creatività e la dilatazione della coscienza; per altro lato, si possono usare musiche più emotive per determinare stati di "regressione" o indurre momenti di "auto-riflessione".

L’uso della musica e la scelta delle melodie sono quindi strumenti per ottenere buoni risultati nell’E.I.T.

Liberarsi con la musica è sperimentare una autenticità profonda ed istintiva, sciogliere i legami delle regole e delle convenzioni, così da poter vivere emozioni nel qui e ora, dando "valore" alla corporeità attraverso il movimento armonico, il ritmo, l’incontro, il toccarsi, l’accarezzarsi, lo sperimentare sensazioni semplici o complesse, ma sicuramente autentiche.

In questo modo il vissuto corporale ha riferimento con la nostra esistenza, con il senso di esistere e di valore, oltre che di "volere". La volizione supera la permissività, per acquisire il significato di scelta, di autogestione, di autovalorizzazione, stabilendo così una ricchezza autentica nell’autodefinirsi e nel crescere.

‚ il lavoro di gruppo. In questa dimensione bisogna sottolineare da un lato l’importanza del gruppo in sé per quanto viene utilizzato per stimolare confronti, per agire compartecipazioni, per arricchire le esperienze e per dare un senso di autostima fondata sul "valore" dell’ osservarsi e dell’ osservare.

Per altro lato, il gruppo è formato da un certo numero di pazienti e da un numero praticamente uguale (1:1) di terapeuti e/o di parenti e caregivers. Se da un lato questo numero di "aiutanti" dà un’idea della difficoltà di lavorare con pazienti "difficili", per le loro limitazioni di comprensione, di esecuzione e di creatività, per altro, si ottengono importanti risultati nel versante, per così dire, "sociale" dell’esperienza. I parenti imparano a osservare e a riconoscere le potenzialità residue dei pazienti ed anche a condividere i miglioramenti di tipo motorio, emotivo ed affettivo che spesso risultano non solo insperati, ma veramente sorprendenti.

La struttura del gruppo è chiusa o solo parzialmente aperta per non provocare sentimenti di rifiuto che, vissuti empaticamente o in maniera sub-conscia, non possono essere affrontati; operatori e/o famigliari possono eventualmente partecipare come osservatori solo dietro il consenso dei partecipanti messi al corrente della richiesta.

Nel gruppo, i vissuti particolarmente carichi di emotività e di tensione vengono affrontati per liberare chi li vive da un sovraccarico e per ridare all’insieme oltre ad un senso di "comprensione" anche la sensazione che "insieme si possono vivere non solo cose belle, ma anche esperienze difficili". In questo modo il gruppo si dimostra integrato, unito e accogliente; permette di vivere emozioni ed affetti godendo la sicurezza di essere sempre accettati. Il controllo ed il superamento delle tensioni rinforza l’autostima e l’autonomia, in un clima di serenità e di felicità. Sono proprio questi sentimenti a fungere da "background" per poter iniziare un lavoro di integrazione emotivo-affettiva proprio perché il "sentirsi felici" è la fonte di energia per la strutturazione psico-dinamica negli affetti: senza allegria compaiono le frustrazioni, le richieste, le tensioni

Questa presa di coscienza aiuta e spesso risulta fondamentale per poter "costruire" una "tolleranza" nei confronti dei limiti imposti dalla malattia, per riuscire a "sopportare" le modificazioni indotte dalla terapia.

ƒ il corpo. L’ E.I.T. nasce dal riconoscimento, ormai universale, dopo i lavori di Reich (che fu uno dei primi collaboratori di Freud), dell’importanza dell’approccio corporale in psicoterapia e la scoperta che il blocco muscolare rappresenta una difficoltà del fluire regolare dell’energia ed ha condotto alla introduzione dell’intervento sul corpo nelle pratiche psicoterapeutiche. In questo modo il corpo ritrova un funzionamento normale e si permette la comparsa di materiale emotivo-affettivo autentico che può essere utilizzato in forma di comunicazione perché la relazione facilita enormemente il "dialogo paziente-terapeuta" e viceversa, attraverso un senso di autenticità, di verità e di reciproca fiducia.

Attraverso il movimento e con la danza ritmica o armonica affiorano alla coscienza i vissuti corporali ed emotivi della nostra esistenza più profonda, i nostri vissuti intimi e, a volte, occulti. Parliamo di esperienze emotivo-affettive che hanno una capacità di integrare lo schema personologico individuale, sviluppando quella capacità creativa che ci fa sentire un po’ artisti, un po’ poeti (dal greco poiein = fare e poeites; poiésis = parteiro = aquel que dà a luz) e, in ultima analisi, capaci di esprimere ciò che abbiamo dentro, che non è altro che la "poesia della propria identità".

Come dice Rolando Toro Arameda (creatore della Biodanza) "attreverso il coraggio di esprimere le proprie potenzialità si riscatta il desiderio, il piacere e l’amore verso la vitalità e la trascendenza che daranno forma ad una identità primordiale, istintiva e "bioetica" attraverso la quale la vita è percepita come "centro dell’esistenza" e come realizzazione autentica di se stessi".

„ il conduttore. Il suo ruolo non è solo quello di dirigere lo svolgimento delle sedute rispettando schemi predeterminati, ma anche quello di incoraggiare, sostenere, accompagnare, stimolare, rinfrancare, sempre tenendo conto delle dinamiche esplicite e/o profonde osservate ed evidenziate attraverso la fenomenologia del comportamento. Oltre al suo intervento, alle sue "dimostrazioni" pratiche, il conduttore utilizza la musica per convogliare le aspettative e le volontà di crescere dei partecipanti; inoltre, con lo sguardo, la postura ed il movimento cerca di rafforzare quell’intesa empatica che risulta essenziale per il raggiungimento dei fini terapeutici, educativi, formativi e … riabilitativi.

… obiettivi. Tra gli obiettivi dell’ E.I.T. si riconoscono quelli

centrati sul paziente:

  • controllare la sintomatologia psico-comportamentale;
  • ristrutturare le potenzialità adattive dell’ Io;
  • contenere e modulare le risposte emotive;
  • rafforzare le disponibilità affettive e relazionali;
  • recuperare le potenzialità motorie e percettive;
  • riscoprire le variabili modulatrici che, filtrate dall’affettività, stimolano le capacità di fronteggiare il disagio e le limitazioni;
  • fare emergere desideri di autoscoperta e volontà propositive nella ricerca di autonomia e di libertà;
  • fare scoprire nuovi desideri di "compliance";
  • frenare la tendenza ad isolarsi e a "ristagnare" in qualche angolo e, quindi, fare assumere un ruolo da protagonista.

Centrati sui caregivers:

  • creare una atmosfera familiare temperata da desideri di crescita contro il nichilismo e la rinuncia;
  • mettere a fuoco le modalità utili per una stimolazione controllata del feedback;
  • fare apprendere un uso moderato dei farmaci contenitivi;
  • facilitare la comparsa di aspettative positive su programmi specifici e mirati;
  • riproporre un reinserimento sociale capace di superare sensi di vergogna per le menomazioni e per le difficoltà comportamentali;
  • scongiurare i pericoli del "burn out" ristrutturando un senso di equipe che sostiene gli interventi;
  • abbandonare atteggiamenti eccessivamente pedagogici e sostituirli con una predisposizione professionale di utilizzo di tutte le potenzialità residue;
  • concentrarsi nuovamente sulle capacità sociali e favorire i contatti con la comunità, nella comunità;
  • prevenire il declino e rinunciare all’idea della ineluttabilità del ricovero.

Gli obiettivi si strutturano sulla base delle aspettative che ognuno vive per se stesso e che dipendono essenzialmente dall’immagine

  1. che uno ha di sé;
  2. che gli altri hanno di uno (con relative reazioni);
  3. che uno proietta negli altri (uno si autodefinisce e agisce in conseguenza della sua immagine che vede rispecchiata negli altri)

e questa immagine dipende anche da:

  1. valori interni dell’ IO;
  2. valori che rispecchiano il gruppo;
  3. fiducia in sé;
  4. fiducia che uno riceve dagli altri

ci sono poi aspettative familiari ed altre sociali.

NUOVE TERAPIE FARMACOLOGICHE

Il blocco farmacologico del sistema colinergico (con scopolamina), da studi sperimentali effettuati negli anni 70, si è dimostrato responsabile di una sintomatologia caratterizzata da perdita della memoria.

Queste osservazioni hanno dato inizio alla sperimentazione di:

1 farmaci che riducono l’enzima (anti-acetilcolinesterasici-AChE), aumentando così il tasso dell’acetilcolina (fisostigmina, tacrina, Donepezil, eptastigmina, ENA 713, metrifonato, galantamina);

1 farmaci chiamati "agonisti - antagonisti colinergici" (milamelina) che mimano l’azione dell’acetilcolina e che potrebbero aumentare la trasmissione tra le cellule nervose. Questi farmaci sono agonisti dei recettori muscarinici che, nell’uomo, sono stati individuati in cinque sottotipi dei quali:

  • il recettore m1, maggiormente rappresentato nella corteccia e nell’ippocampo, sembra interessare i processi mnestici;
  • il recettore m4, presente nei nuclei della base, è coinvolto nei processi di apprendimento motorio;
  • il recettore m2 è localizzato a livello presinaptico e sembra partecipare alla liberazione dell’acetilcolina.

Diverse comunicazioni scientifiche riportano che gli anticolinestrerasici e gli antagonisti, seppure migliorino il funzionamento dei neurotrasmettitori, non impediscono la morte delle cellule nervose, né rallentano significativamente o arrestano il decorso della malattia. Anche la modestia dei risultati ottenuto con il Donepezil e diffusi nella "product monograph" della casa produttrice, fanno pensare ad un’azione di natura sintomatica, tanto più che gli studi sono stati ottenuti su pazienti con compromissione moderata.

Per il momento sono maggiormente adottati gli anticolinesterasici dei quali appunto il Donepezil è già entrato in commercio (la tacrina è stata definitivamente abbandonata per la sua azione epatotossica). I dati di efficacia sin qui riportati parlano di effetto sintomatico su un numero di casi del 20-30 %, affetti da demenza di grado lieve o moderato, per una durata limitata nel tempo.

Il risultato più importante ottenuto con questi farmaci è quello di ritardare per più o meno un anno il decadimento mentale dei pazienti; fatto che, di per sé, potrebbe anche tradursi in un maggior "tempo di sofferenza" per i parenti che devono sopportare le cosiddette "giornate di 36 ore"!!

TERAPIA COMBINATA come INTERVENTO INTEGRATO

Il desiderio di migliorare i risultati ottenuti da una parte con interventi psicoterapeutici e, per altro, con la terapia farmacologica, ci ha portato ad utilizzare contemporaneamente entrambi i sistemi.

La ricerca preliminare, che permetterà di impostare una indagine su larga scala, è stata così strutturata:

numero di pazienti 7 : 3 donne e 4 uomini;

- diagnosi di malattia di Alzheimer probabile con esordio tra i 3 e i 5 anni;

- malattia di grado medio;

- presenza di disturbi comportamentali;

- TAC e RM nei limiti della norma;

- non assunzione di farmaci psicotropi se non occasionalmente;

- condizioni fisiche generali buone o discrete;

due mesi di terapia E.I.T.

- 3 pazienti (1 donna; 2 uomini) con terapia anticolinesterasica nel 2° mese;

- 4 pazienti senza alcuna terapia farmacologica specifica;

- valutazione dei risultati dopo il 1° mese (4 sedute di E.I.T.);

- valutazione dei risultati dopo il 2° mese (8 sedute di E.I.T.).

METODO

Per un’analisi dettagliata della metodologia dell’ E.I.T. si rimanda ad una precedente pubblicazione: "E.I.T. – terapia di integrazione emotivo affettiva" (Romeo Lucioni).

Le linee operative generali per l’ E.I.T. applicata alla malattia di Alzheimer sono quelle di:

  • attivare e ripristinare le capacità percettive e motorie, semplici e complesse, senza proporre specifici esercizi, ma attivando l’iniziativa attraverso il seguire la musica e partecipando all’integrazione del gruppo;
  • generare flussi emotivi nel rapporto interpersonale tenendosi per mano, avvicinandosi e allontanandosi, eccetera;
  • ricreare dinamiche affettive che, fondate sulla qualità portano al riconoscimento ed alla valorizzazione di sé e degli altri attraverso le dinamiche dell’auto- e dell’etero- riconoscimento, dell’osservazione e dell’emulazione, del confronto e dello stimolo all’integrazione;
  • ripristinare l’attenzione e la tenuta attraverso la valorizzazione dei compiti sia su basi ludico-libidiche, sia su flussi di autovalorizzazione e di blocco dei sentimenti di sfiducia, di autoaccusa e di autodenigrazione;
  • ristabilire vincoli cognitivi attraverso il ripristino mnesico ed il riconoscimento degli oggetti e delle loro funzioni, dei visi, delle voci, eccetera.

Ogni incontro viene strutturato in modo che rispetti una progressione che segue:

  • ricezione degli utenti e degli operatori e riconoscimento degli stessi;
  • adeguamento al setting e preparazione dell’operatività;
  • recupero del livello ottenuto nelle sedute anteriori, cercando di livellare le aree (motoria – emotiva – affettiva – cognitiva) in modo da raggiungere uno sviluppo armonico;
  • incremento del livello dei compiti = gratificazione;
  • proposta di ulteriori conquiste = stimolazione;
  • saluti finali per riconfermare il "valore" dell’incontro;
  • analisi dei risultati fatta dagli operatori per programmare le sedute successive e per preparare la valutazione di fine mese.

VALUTAZIONE DEI RISULTATI

Le difficoltà di valutazione riguardano i problemi della quantificazione delle impressioni soggettive; le diversità degli interventi, perché ogni operatore ha un suo proprio "metodo", un "fascino" particolare, una capacità di condivisione e di convincere del tutto specifiche ed anche una tenuta ed una possibilità attentiva che varia da soggetto a soggetto; la possibilità di creare un feeling tra paziente e operatore che sempre varia e provoca enormi influenze sui risultati. Queste considerazioni sono tipiche di ogni intervento psicoterapeutico e, nel nostro lavoro, si è cercato di superare l’individualismo dell’applicazione, facendo ruotare sempre gli operatori.

Tutti i pazienti Alzheimer che intraprendono la terapia di integrazione emotivo-affettiva (E.I.T.) dimostrano notevoli miglioramenti che si dimostrano costanti e progressivi.

Anche se le sedute terapeutiche sono settimanali e di una sola ora, di volta in volta si osservano migliori prestazioni in ogni area.

Area motoria:

tutti i pazienti, pur partendo da livelli diversi, dimostrano di acquisire una maggiore capacità di eseguire movimenti che erano loro, in qualche modo, preclusi. Migliora la coordinazione, l’efficienza, la disponibilità, la velocità di esecuzione e delle risposte riflesse; migliorano le funzioni di: camminare in retromarcia, spostarsi lateralmente, mantenere posizioni statiche (eutonia; Tai-chi-chuan), correre e saltare, che, all’inizio della terapia, risultavano difficoltose. Progredisce l’attenzione e la tenuta (tutti i pazienti lavorano sempre per lo spazio di una intera ora sotto il controllo del "direttore" che stabilisce il ritmo e l’intensità degli esercizi) e i pazienti dimostrano una notevole soddisfazione non solo per il fatto di "capire" che "le cose vanno meglio", ma che migliorano le loro possibilità di emulare le terapiste ed il conduttore.

Area emotiva:

le situazioni di ansia e di emotività esplosiva vengono rapidamente controllate ed i pazienti dimostrano grandi capacità di crescere emotivamente, partecipando con impegno e con slancio alle attività che, per lo più, cambiano di volta in volta anche se sempre si segue uno schema che interessa:

- allargamento dei confini della coscienza;

- esplorazione di nuove o recuperate funzionalità;

- sviluppo delle scelte personali, della volontà e del desiderio di cimentarsi e

di crescere;

- sublimazione degli atteggiamenti di chiusura (autistici e/o oppositivi);

- controllo dell’ipermotricità o delle situazioni di isolamento.

Si riduce l’ansia libera e spariscono sensazioni di angoscia e di paura.

Area affettiva:

la partecipazione diventa sempre più importante; i pazienti vengono volentieri alle sedute e lavorano con impegno e senso di soddisfazione; col passare delle settimane, non si verificano più difficoltà relazionali ed i pazienti possono lavorare sia con gli operatori sia con gli altri partecipanti; si osserva un crescente senso di soddisfazione nel percepire di stare lavorando meglio; c’è sempre maggior disponibilità a cercare di migliorare le proprie performances; si sviluppa una maggiore partecipazione e quindi una più spiccata volontà ad eseguire gli esercizi.

Area cognitiva:

la comprensione degli ordini e l’esecuzione degli stessi diventa più facile e quasi automatica: i pazienti riescono a ricordare, di volta in volta, il senso delle esperienze proposte ed anche a rendersi conto di "come" si possono eseguire certi movimenti complessi.

Non si osservano tendenze alla fuga e sono veramente minime le esperienze di movimenti e/o comportamenti afinalistici.

² ² ²

Per meglio valutare queste osservazioni personali ed empiriche, si è utilizzato il seguente schema:

SCHEMA DI VALUTAZIONE DELLE SEDUTE DI "E.I.T."

Emotività

r ansietà libera ed incontrollata  ‚ ƒ „ …

r reazioni di tensione  ‚ ƒ „ …

r reazioni di rabbia  ‚ ƒ „ …

r predominio di risposte emotive  ‚ ƒ „ …

r sensi di paura  ‚ ƒ „ …

r sensi di angoscia  ‚ ƒ „ …

Affettività

r difficoltà nelle relazioni interpersonali :

con gli operatori  ‚ ƒ „ …

con gli altri pazienti  ‚ ƒ „ …

r sentimenti di svalorizzazione  ‚ ƒ „ …

r critica oppositiva  ‚ ƒ „ …

r adattamento superficiale ed incostante  ‚ ƒ „ …

r tendenza alla rinuncia  ‚ ƒ „ …

r difficoltà nel contatto interpersonale  ‚ ƒ „ …

r difficoltà nel contatto corporale  ‚ ƒ „ …

r svalorizzazione degli altri  ‚ ƒ „ …

Espressività

r atteggiamenti fobico-ossessivi  ‚ ƒ „ …

r risposte ecolaliche  ‚ ƒ „ …

r linguaggio frammentario ed incoerente  ‚ ƒ „ …

r difficoltà a comprendere gli ordini  ‚ ƒ „ …

r riduzione dell’attenzione  ‚ ƒ „ …

r riduzione della tenuta  ‚ ƒ „ …

Comportamento

r logorrea tesa a distrarre  ‚ ƒ „ …

r spunti autistici  ‚ ƒ „ …

r tendenza all’isolamento  ‚ ƒ „ …

r esecuzione casuale degli ordini  ‚ ƒ „ …

r comportamenti ripetitivi controfobici  ‚ ƒ „ …

r tendenza alla fuga  ‚ ƒ „ …

r tendenza a imitare gli altri  ‚ ƒ „ …

r perdita dell’iniziativa  ‚ ƒ „ …

r comportamenti afinalistici  ‚ ƒ „ …

Motricità

r difficoltà ad eseguire comportamenti motori semplici  ‚ ƒ „ …

r difficoltà ad eseguire comportamenti motori complessi  ‚ ƒ „ …

r difficoltà nella retromarcia  ‚ ƒ „ …

r difficoltà nella corsa  ‚ ƒ „ …

r difficoltà nel saltare  ‚ ƒ „ …

r facile stancabilità  ‚ ƒ „ …

RISULTATI

Il modello terapeutico tiene conto delle disposizioni personali all’approccio, di conseguenza si cerca sempre che nasca dal paziente una propensione ed un desiderio di operare. In questo modo non si osservano fughe, blocchi o reazioni oppositive e si può stabilire una "compliance" ed una vera fiducia che trascinano i risultati positivi. Tra questi va annoverato, prima di tutto, il fatto di poter contenere rapidamente le intense tensioni emotive che conseguono all’approccio con un ambiente nuovo e del tutto sconosciuto. Creare una "atmosfera" è il compito del conduttore e dei terapeuti, insieme ai famigliari ed è il momento principale per cominciare la terapia.

La "ritualizzazione" dell’approccio iniziale è molto utile per stabilire una modalità "abituale" per iniziare, per avvicinarsi e i saluti che si scambiano a mo’ di presentazione tolgono cariche emotive spurie e aumentano il senso di appartenenza e quello di essere una persona riconosciuta e valorizzata.

TABELLE DEI RISULTATI

TAB. 1

A B C A-B % B-C % A-C %
D. 2.64 2.00 1.70 24.24 15.00 35.61
L. 2.76 2.17 1.73 21.38 20.28 37.32
G. 2.89 2.34 1.84 19.03 21.36 36.33
F. 3.81 3.38 2.75 11.29 18.64 27.82
M. 3.33 2.70 2.20 18.92 18.52 33.93
Fr. 3.67 3.16 2.61 13.90 17.40 28.88
Ma. 3.79 3.20 2.68 15.57 16.25 29.29
17.76 18.21 32.74

 TAB. 2

A-C emotività affettività espressività Comporta= mento motricità MEDIA
D. 35.33 30.86 41.34 22.00 44.33 31.77%
L. 39.00 26.17 34.83 43.75 42.92 37.33%
G. 39.00 20.97 31.46 40.98 45.35 35.55%
F. 33.43 30.05 30.29 24.79 22.22 28.16%
M. 25.09 35.46 36.51 34.47 36.51 33.61%
Fr. 24.92 29.36 19.82 31.06 35.76 28.18%
Ma. 27.24 38.36 27.25 23.12 29.56 29.11%
32.00 30.18 31.64 31.45 36.68 32.39%

 A = valutazione all’inizio della terapia E.I.T.

B = valutazione alla fine del primo mese di terapia (4 sedute)

C = valutazione alla fine del secondo mese di terapia (8 sedute)

A-B; B-C; A-C = differenze percentuali che dimostrano sempre un miglioramento.

I dati riportati nelle tabelle 1 e 2 si riferiscono alle valutazioni ottenute sulla base dello schema di valutazione delle sedute. Tutti i pazienti che hanno usufruito dell’ E.I.T. hanno dimostrato un miglioramento degli indici sia dopo il primo, che dopo il secondo mese.

Si osserva un miglioramento medio del 17,76% dopo il primo mese di terapia e del 18,21% dopo il secondo; il miglioramento medio dopo due mesi di terapia è stato del 32,74%.

I pazienti D.L.M. sono quelli che all’inizio del secondo mese hanno assunto un anticolinesterasico: gli indici non indicano differenze rispetto agli altri pazienti, ma la sensazione degli operatori, come detto nel testo, è stata quella di un migliore adattamento alle prove osservato anche subito dopo i primi giorni di somministrazione.

COMMENTO

Nel rapporto multifunzionale con un fatto morboso tanto complesso come risulta essere la malattia di Alzheimer, emergono molte sfaccettature che riguardano l’assistenza, la cura, l’attivazione, la riabilitazione, l’accompagnamento, la condivisione, la qualità della vita ed inoltre le dinamiche intrapsichiche e quelle relative al rapporto interpersonale con i caregivers e con i medici.

I temi in discussione riguardano:

la diagnosi, che per molti versi, risulta ancora alquanto imprecisa, difficile e, soprattutto, per nulla precoce;

la genetica, che riguarda lo studio del DNA nelle cui spirali sono contenute le nostre possibilità anche cognitive e nel cui ambito è in discussione la patogenesi della malattia di Alzheimer o, comunque, la delimitazione del terreno e delle concomitanti che facilitano la comparsa della sindrome;

la biologia, che introduce elementi riferiti all’invecchiamento cerebrale, all’orologio biologico, alla plasticità e alle capacità riparative del cervello che fungono da risposte adattive;

l’epidemiologia, che implica l’osservazione dei fenomeni "epigenetici" che "dal di fuori" danno forma al destino evolutivo ed involutivo di ogni uomo;

l’antropologia, che riguarda le relazioni tra gli esseri umani e, in questo caso, tiene conto delle dinamiche tra malati, famigliari e società;

le neuroscienze, che introducono la ricerca delle relazioni psico-neuro-biologiche e dei circuiti neuro-funzionali responsabili dell’espressione fenomenologica della malattia;

la psicodinamica, che per certe evidenze anamnestiche sembra intervenire nel meccanismo dello scatenamento della malattia;

la chimica cellulare, per la quale i processi di ossidazione sembrano molto importanti per condizionare l’insorgere della malattia e markers diagnostici;

le relazioni con la perdita, che interferiscono nelle dinamiche transferali dei famigliari e dei caregivers, per i quali, naturalmente, contano anche problematiche di tipo contingente ed economico;

le terapie farmacologiche e psicologiche, che irrompono nell’attualità da un lato interessando i problemi dell’efficacia, oltre che delle modalità farmacocinetiche, per altro determinando pregnanti questioni di tipo bioetico oltre che di validazione del concetto, a volte prioritario, del miglioramento della qualità della vita;

i costi di erogazione degli interventi che investono poderosamente , in primo luogo, le famiglie, ma, per buona parte, anche le Istituzioni;

il tema della prevenzione, ancora un po’ troppo acerbo per essere affrontato mentre non si conoscono le cause eziopatogenetiche, ma che, per altro, si preannuncia come campo di esame per far posto ad una miriade di proposte, più o meno validate oltre che specificizzate.

Un certo grado di miglioramento induce sempre il dubbio che risulti solamente sintomatico e che, pertanto, giochi solo il "drammatico" ruolo di allungare la malattia che, da un altro punto di vista, non è altro che allungare la sofferenza.

Questo "capitolo" che riguarda in senso lato la terapia, nella malattia di Alzheimer, a nostro parere, risulta molto importante perché impone modelli di "lettura" del tutto particolari. Un miglioramento dello stato psicomentale del malato può indurre una ricomparsa di sensi di frustrazione e di angoscia per una migliore presa di coscienza del proprio stato di deficit; possono facilmente comparire isole mnestiche prima sepolte nel grigiore della perdita che sconvolgono e/o supportano reazioni emotivo-affettive che possono anche essere di opposizione, di accusa, di rabbia ed anche di aggressività.

Il lavoro dello psichiatra consiste anche nel sapere leggere questi "momenti" e riuscire a controllarli, a canalizzarli verso la spinta della crescita ed anche spiegarli ai parenti ed ai caregivers perché non si lascino prendere dallo sconforto, dalla frustrazione e dal "risentimento nei confronti della terapia che ... "smuove le acque stagnanti della malattia".

La dimensione etica del recupero acquista un valore di spinta a continuare nella via della riabilitazione, così che si stabiliscono modelli di "compliance" che uniscono terapeuti, famigliari e caregivers nella ricerca di obiettivi nuovi.

Dinanzi ai risultati positivi e promettenti che si ottengono sia con le terapie, quella farmacologica e quella psicologica indipendentemente, sia con l’accostamento delle due in un unico intervento integrato, emerge con prepotenza una questione molto complessa e che coinvolge tutti coloro che operano tenendo come epicentro ognuno dei pazienti: i "risvegli" ottenuti e i miglioramenti che si possono raggiungere devono servire a proporre un nuovo grande passo verso la riabilitazione. Questa, comunque, non deve essere vista solamente come cognitiva (ci butteremmo in un vicolo pauperizzante), ma deve investire gli ambiti dell’emotività e dell’affettività.

Gli spazi di funzionamento fisico, emotivo, affettivo, cognitivo, sociale, psicologico e di autonomia che si guadagnano con l’ E.I.T. devono essere utilizzati come trampolino per tendere a costruire una nuova qualità della vita.

Il paziente diagnosticato come portatore di una delle più gravi patologie cronico-degenerative attende, in questo modo, di essere riscattato da "nuove strategie assistenziali" che si propongono nell’obiettivo di modificare, oltre che di modulare, il decorso della malattia.

Emotività: il paziente è ritornato a vivere sensazioni di disagio e di insufficienza di fronte alle menomazioni ed alle disabilità, spetta quindi allo specialista contenere le crisi senza assopire, senza sedare; è compito dei caregivers trovare modulazioni comportamentali atte ad accompagnare senza violentare o rimproverare, centrati sulla dolcezza e sulla comprensione; spetta alle associazioni strutturare interventi di arricchimento come passeggiate, gite, incontri.

Affettività: il paziente sperimenta una profonda crescita di sentimenti valorativi che si traducono in delicate sfumature di approvazione e di ringraziamento. In questo ambito, si osserva la rottura dell’isolamento e l’instaurarsi di atteggiamenti di dipendenza, di accompagnamenti e di imitazione che non devono essere soffocati, ma, al contrario, accettati e facilitati per poter ritrovare spazi di indipendenza sempre più ampi e validi.

Capacità cognitive: l’abbandono di quegli atteggiamenti tanto tipici ed imponenti di regressione al rapporto primitivo con la madre vissuta come "seno buono", porta a ristabilire valori più recenti che dovrebbero essere utilizzati per ritrovare contatti e partecipare "storie, aneddoti e vissuti".

Nella malattia di Alzheimer si evidenziano, come destrutturazione cognitiva:

  • incapacità a leggere e a tradurre la realtà, rispettando un significato e, soprattutto, un significato condiviso;
  • incapacità a integrare la realtà esterna con la realtà interna dominata da sensazioni di inefficienza e di estraneità, oltre che da disinvestimento libidico;
  • incapacità a trovare collegamenti tra gli stimoli esterni e le risposte personali sia emotive che affettive.

Le perdite di ordine cognitivo rompono il flusso ordinatore tra percepire e sapere, che sta alla base del conoscere e del riconoscere. I deficit delle funzioni deduttive portano il soggetto a tentare riconoscimenti di tipo globale (quindi non relativi a costrutti deduttivi), empatici ed istintivi, che lasciano ampio margine alla deformazione illusorio-interpretativa che poi non può più essere rettificata e quindi permette la formazione di una frattura, di un vallo tra realtà e soggettività, tra percepito e vissuto.

Nell’ E.I.T., prendere per mano il paziente e condividere le emozioni legate alle esperienze, serve proprio a ricucire queste fratture: la condivisione funziona da modulo rassicurante e da scelta strutturante. La partecipazione consensuale nel movimento e nell’interscambio gestuale, visivo, tattile ed emotivo, porta ad una validazione che sorge non dall’imposizione educativo-didattica, ma proprio dall’elaborazione empatica, dal di dentro, che supporta la presa di coscienza di "verità".

Il senso di sicurezza risulta da un continuo sperimentarsi e mettersi in gioco, da un progressivo passaggio dall’esperienza condivisa all’instaurare procedimenti autonomi che vengono situati nel confronto, nell’osservazione, nella validazione.

² ² ²

La valutazione degli "out-come" nella terapia della malattia di Alzheimer, oltre che un problema, sta diventando un vero e proprio dilemma. Se prendiamo in considerazione le modificazioni dei processi mentali e della psicodinamica, le difficoltà di dare una risposta chiara e, soprattutto, sicura dipende da troppe variabili e sembra di trovarsi sempre al punto di partenza. Superare la limitazione diagnostica e rispettare la persona che ha bisogno non solo di "cura", ma anche di importanti recuperi funzionali, che gli permettano la riparazione di funzionamenti mentali e di costrutti personologici, si evidenziano come momenti fondamentali per un approcccio valido, ma, nello stesso tempo, una limitazione alle possibilità di decifrare correttamente i modi ed i modelli dell’efficacia e della validità.

 

La terapia combinata di E.I.T. (terapia di integrazione emotivo-affettiva) accompagnata dalla somministrazione di un anticolinesterasico ha dimostrato una importante efficacia per diminuire i sintomi di deficit caratteristici della malattia di Alzheimer. Questa osservazione equivale a dire che il modello di intervento risulta efficace proprio perché si riducono i sintomi legati alla disorganizzazione Ioica e della personalità, che attendono a problematiche relazionali, di comportamento e di disadattamento sociale.

Seppure il presente lavoro riporti i dati relativi ad un esiguo numero di pazienti, gli stessi devono tuttavia reputarsi di interesse perché si riportano ad anteriori esperienze eseguite con la Biodanza e, soprattutto, perché tutti i casi sono stati valutati ampiamente con scale di osservazione preparate ad hoc.

Gli anticolinesterasici si sono dimostrati molto attivi per incrementare i miglioramenti che si ottengono con l’ E.I.T. dal momento che:

  • facilitano la presa di coscienza del proprio ruolo;
  • aiutano a diminuire la tensione emotiva;
  • permettono un migliore adeguamento alla situazione del setting;
  • aumentano l’attenzione e la tenuta durante le attività;
  • diminuiscono gli atteggiamenti oppositivi;
  • facilitano la comprensione di ciò che succede negli incontri.

Visto in questo ordine di idee il recupero e la riabilitazione presuppongono la conquista di un "nuovo spazio sociale".

Potremmo proporre uno schema operativo di confronto tra prima e dopo la terapia psicoterapica con supporto farmacologico:

A

L’intervento medico-riabilitativo prevarica per importanza ed è centrato sul soggetto (il paziente) che deve essere diagnosticato, valutato, accompagnato durante la terapia. In questa fase l’agire delle Associazioni di sostegno è centrato con preferenza sulla famiglia per informarla e per sostenerla nelle pratiche legali, nell’accettazione delle perdite (incontro con "nuovi amici") e nel sostegno per affrontare tutte le necessità inerenti la gestione legale (es. assegno di accompagnamento) e funzionale (gestione dei contatti con gli specialisti per la diagnosi ed il supporto farmaco e psico-terapeutico).

B

Nella seconda fase, l’iniziativa delle Associazioni deve essere molto più rivolta sul paziente per offrire spazi di socializzazione, di compartecipazione, di sollievo e di vero e proprio recupero sociale, da compiere con il supporto delle strutture istituzionali (day hospital, centri diurni, centri sociali).

Le migliori disponibilità emotivo-affettive e la più solida partecipazione mnesico-attentiva devono essere sfruttate per far crescere quegli spazi psico-mentali ancora incerti, ma che si prospettano come possibili.

L’applicazione dell’ E.I.T., nelle sue valenze psicoterapeutiche e nei suoi risultati osservabili nelle dinamiche complesse che si stabiliscono a diversi livelli relazionali, stimola la presa di coscienza della necessità di affrontare non solo le dinamiche intrapsichiche, patrimonio dei pazienti, ma, forse anche soprattutto, quelle "interpsichiche" che coinvolgono poderosamente i famigliari.

Questo tema risulta di grande interesse dal momento che le esperienze condotte nei "Nuclei Alzheimer" (progetto della Regione Lombardia) hanno messo in evidenza come il ricovero in ambienti protetti, contentenitivi e limitativi dal punto di vista della vivacità e delle molteplicità dei rapporti interpersonali, favorisce lo strutturarsi di una dimensione di autoriferimento ed egocentrica che si traduce in una tranquillità ed una serenità che, positiva dal lato del controllo dei comportamenti e delle reazioni emotive, risulta forse troppo "cronicizzante".

Gestire la perdita ed il deterioramento progressivo è sì un valido approccio, ma implica una specie di ghettizzazione che fa ricordare troppo i centri psichiatrici ormai in via di chiusura definitiva. La sperimentazione psicologico-farmacologica dovrebbe poter offrire risposte di effettivo recupero e di … "ritorno a casa", anche se magari per periodi più o meno lunghi.

Molti sono gli items relativi a questa problematica:

[ la perdita dei "valori" cognitivi ed affettivi del paziente e la necessità di modellarsi, di conseguenza, sul versante della disponibilità incondizionata, responsabile e continuativa;

[ la pregnanza di desideri nichilistici che portano alla rinuncia ed al desiderio dell’allontanamento e del ricovero;

[ la comparsa di sentimenti di colpa con la conseguente disponibilità istintiva alla proiezione;

[ la difficoltà ad assumere nel "reale" la complessità e la tragicità dell’evento patologico che non lascia vie di scampo, così che compaiono le elaborazioni regressive della negazione, della minimizzazione e del rifiuto;

[ l’insorgenza di valenze infantili che si oppongono alla presa di coscienza della complessità e portano a scelte mitomaniche e irrazionali che rispecchiano i sentimenti che sottendono la automedicazione;

[ le dinamiche che supportano le richieste assillanti di aiuto e le rivendicazioni nei confronti delle Istituzioni, delle Associazioni di sostegno e dei medici curanti.

CONCLUSIONI

La finalità principale della terapia basata sull’integrazione di una psicoterapia –l’E.I.T- con un trattamento farmacologico –anticolinesterasici- è quella di indurre una "riabilitazione psicosociale" che risulta un approccio terapeutico alla persona malata attraverso procedure centrate sia sul soggetto, sia sul sostegno dell’ambiente.

Si potrebbe dividere la riabilitazione in due momenti:

  1. riabilitazione psicofisica, che tende a superare il malfunzionamento cerebrale attraverso la modificazione delle strutture attivate dall’acetilcolina, la ristrutturazione dell’ IO con l’utilizzazione di tecniche psicoterapeutiche appropriate ed il controllo delle crisi emotive (momento medico);
  2. riabilitazione psicosociale, che mira a sviluppare abilità psico-relazionali, ottimizzando i sostegni ambientali (momento sociale).

Questo modello riabilitativo ha dunque un approccio riparativo ed uno eclettico che tende ad indurre un cambiamento sia dell’individuo, sia del suo ambiente o in entrambi. Da un punto di vista operativo la "riabilitazione psicosociale" ha le sue competenze fondamentali in:

  • attività dello specialista (neurologo-psichiatra) che stabilisce la diagnosi, il livello di decadimento e dei limiti del paziente, le linee prognostiche del recupero, tenendo conto sia delle potenzialità del soggetto, sia delle disponibilità della famiglia, dell’ambiente, dei gruppi di sostegno istituzionali e/o volontari;
  • intervento psicoterapeutico –E.I.T.- guidato e controllato dallo psichiatra che deve coinvolgere famigliari e caregivers;
  • profilassi farmacologica attraverso la somministrazione di anticolinesterasici con costante controllo specialistico che deve anche prevedere interventi correttivi di tipo psicologico o farmacologico (per lo più con antidepressivi) che non deprima però i livelli psico-mentali recuperati;
  • coordinamento dello psichiatra (o persona specializzata) con la famiglia, i caregivers ed i supporti psico-ambientali, per ottenere una ottimizzazione degli sforzi di risocializzazione, per raggiungere un approccio riabilitativo totale.

Le modificazioni indotte dalla terapia integrata –psicoterapica e farmacologica- devono indurre utili cambiamenti nell’ambiente familiare, nei laboratori protetti, nelle comunità, nei centri psicosociali.

Tutti questi interventi, che si definiscono psicosociali, devono essere applicati sin dall’inizio o, comunque, il più precocemente possibile, proprio perché i primi anni della malattia assumono, sempre più, una enorme importanza per le strategie del mantenimento delle risorse, per il controllo del deterioramento e per facilitare i futuri sforzi riabilitativi.

A questo proposito, va ripetuto il concetto che per terapia riabilitativa, così come si fa nell’ E.I.T., vanno rispettate tre fasi:

  1. valutazione clinica e formulazione di un progetto;
  2. messa in atto degli interventi psicoterapici;
  3. processo di verifica dei risultati con riproposizione degli obiettivi.

Possiamo proporre uno schema operativo che riguarda:

  1. valutazione e diagnosi;
  2. inserimento in un programma riabilitativo;
  3. attivazione del trattamento psicoterapico;
  4. inizio di una terapia anticolinesterasica;
  5. controllo dei risultati;
  6. interventi farmacologici adattivi sui sintomi modificati;
  7. inserimento in schemi di trattamento psicosociale.

Questo schema operativo richiede poi:

  • osservazione centrata non solo sui deficit e/o sui disturbi comportamentali, ma anche sugli investimenti possibili, sulle qualità e sugli interessi del paziente;
  • continuità ed integrazione terapeutica;
  • presa in carico globale del malato;
  • valorizzazione dei cambiamenti funzionali e del miglioramento della qualità della vita del paziente e della famiglia.

Un programma riabilitativo non può concludersi senza il rafforzamento delle articolazioni sociali sia perché, in mancanza di queste, il "percorso" non prosegue e non si completa, sia perché senza il sociale una persona resta comunque menomata: il miglioramento delle capacità sociali resta, anche per quanto riguarda la malattia di Alzheimer, il più promettente delle strategie per alleviare l’oppressione delle disfunzioni e dell’invalidità. Nell’area della socializzazione, assieme alle relazioni interpersonali, va considerata l’ assertività che indica le capacità di comunicare i propri bisogni e le aspettative.

Nel caso dell’ Alzheimer, forse non si tratta di arrivare ad una autonomia di tale livello da portare alla ricerca dell’inserimento (ormai non lavoreranno più e, per altro lato, in molti casi la personalità premorbosa era caratterizzata da tendenza all’isolamento ed alla solitudine), ma sicuramente il paziente recuperato può "sopportare" l’intenso stimolo emotivo degli incontri sociali che, quindi, possono (e devono) essere proposti e realizzati.

A questo proposito dobbiamo essere coscienti delle molteplici difficoltà da superare:

  • prevenzioni della società al fatto che un paziente demente possa "partecipare socialmente" senza riceverne uno stress o provocando fastidi e/o turbamenti;
  • prevenzione dei famigliari che preferiscono (forse anche per vergogna) "restare rinchiusi" piuttosto che farsi vedere, anche se, per altro, si registrano spesso espressioni come "… preferisco che lui/lei se ne stia tranquillo seduti su una sedia in casa (o nel ricovero) piuttosto di vederlo ansioso o angosciato!";
  • prevenzione delle istituzioni che dovrebbero programmare escursioni, incontri o attività adeguate alle persone con problemi cognitivi;
  • inadeguatezza delle Associazioni che preferiscono indirizzare i loro sforzi organizzativi sulle famiglie e sui caregivers;
  • impossibilità dei volontari che, non preparati adeguatamente, si trovano "soli" a dover affrontare problematiche troppo onerose;
  • incapacità delle risorse medico-assistenziali a proiettarsi al di là delle iniziative atte al controllo dei sintomi.

Nel momento in cui risulta difficile prendere in esame e percepire come possibili gli interventi di socializzazione, è evidente che si rinuncia alle potenzialità e alle risorse di ciascun utente e allo sviluppo di quella rete sociale nella quale tutti siamo coinvolti e, nella quale, involontariamente creiamo barriere.

Rispettando i principi della ecologia biologica, dobbiamo tenere in considerazione:

  • principio di adattamento, per il quale i miglioramenti raggiunti dal paziente devono poter investire tutto l’ambiente competente: familiare, dei caregivers e del gruppo sociale concomitante e di supporto;
  • principio del riciclaggio delle risorse, per il quale un cambiamento del soggetto presuppone anche quello dei caratteri dell’organizzazione che include operatori sanitari, dell’assistenza, del sostegno e dell’accompagnamento. Ciò impone anche una modificazione oltre che ideologica anche cognitiva, emotiva ed affettiva della partecipazione del medico per permettere l’utilizzazione di ogni risorsa atta al miglioramento della situazione clinica e di quella inerente la qualità della vita;
  • principio della continuità, per il quale in ogni tappa dello sviluppo terapeutico-assistenziale bisogna mantenere i principi del rispetto del malato, della sua centralità nell’organizzazione dell’intervento, della ricerca di modalità innovative, originali, emancipatorie ed appropriate alla singolarità (superamento della pratica generica ed approssimativa), dell’utilizzo delle abilità del paziente e delle risorse dell’ambiente.

PER RIASSUMERE

Il presente contributo porta a nuove considerazioni teorico-pratiche sostenute dai risultati positivi ottenuti nell’ambito della terapia e della riabilitazione dei pazienti Alzheimer.

Si osserva:

  1. il miglioramento degli indici dopo due mesi di E.I.T. (terapia di integrazione emotivo-affettiva) sola e accompagnata da terapia farmacologica con anticolinesterasici. Le migliori prestazioni di tutti i pazienti confermano che l’intervento psicoterapeutico adottato risulti efficace anche a partire dalla prime sedute e quindi dimostra come un buon approccio emotivo-affettivo diventi capace di smuovere le strutture psico-mentali di questi malati;
  2. la terapia farmacologica con anticolinesterasici è efficace (anche se non è stato possibile quantificarlo con indici precisi) per facilitare il lavoro psicoterapeutico;
  3. i risultati positivi ottenuti, sia nel controllo della sintomatologia positiva (disturbi emotivi ed errori comportamentali), sia nello stimolare una maggiore partecipazione nel rapporto interpersonale che sviluppa delle capacità adattive e dell’attitudine volitiva e propositiva, portano a considerare la necessità di nuovi interventi di tipo psico-sociale, sia per continuare il processo riabilitativo, che per un miglioramento della qualità della vita;
  4. la possibilità di recuperare spazi psico-sociali nell’ambito della riabilitazione presuppone la necessità di stabilire nuovi rapporti tra paziente e famiglia, tra paziente e caregivers e/o gruppi di sostegno volontario;
  5. il miglioramento delle condizioni psico-mentali ottenuti con la psicoterapia abbinata all’uso di anticolinesterasici (come supporto e come mantenimento) preannunciano la necessità di interventi farmacologici di tipo supportivo-adattivo che però non blocchino la migliorata predisposizione alla crescita;
  6. nell’ambito della prevenzione del decadimento, le Istituzioni, con l’aiuto irrinunciabile delle Associazioni di supporto volontario, devono intervenire in modo da ridurre i costi legati preventivamente ai peggioramenti ed evitare il più possibile il ricovero e la ghettizzazione;
  7. per quanto riguarda la diagnosi si sono messi in evidenza dati qualitativi di natura psicodinamica che aiutano alla delimitazione della malattia di Alzheimer;
  8. tenuto conto delle dinamiche biologiche si sono evidenziate ampie aree di intervento nelle dimensioni emotiva ed affettiva che permettono ottenere risultati utilizzando possibili circuiti alternativi che entrano nella dinamica della plasticità cerebrale;
  9. per lo studio epidemiologico il presente lavoro ha indicato alcuni tratti psicodinamici di personalità, che potrebbero essere inclusi nelle ricerche, soprattutto per individuare eventuali momenti scatenanti la malattia;
  10. le neuroscienze devono prendere in esame i miglioramenti ottenuti con la nostra pratica psicoterapeutica per studiare i meccanismi psico-neuro-biologici che li sottendono;
  11. sono stati messi in evidenza i processi intrapsichici e, soprattutto, quelli inter-psichici e/o relazionali che investono i pazienti e la famiglia per la quale l’elaborazione della perdita e l’accettazione di possibili miglioramenti impongono importanti motivi di conflitto e necessità di presa di decisioni;
  12. si è potuto osservare come la terapia farmacologica e quella psicoterapica possano essere integrate in un processo riabilitativo che potrebbe risultare di grande importanza per analizzare costi di erogazione, il rapporto costo-beneficio e le dinamiche della prevenzione;
  13. la riabilitazione psico-sociale risulta una meta possibile, ma potrà essere ottenuta solamente attraverso la strutturazione di interventi che coinvolgono la famiglia, i caregivers, le associazioni di volontariato, le istituzioni che devono agire in concomitanza con i sanitari utilizzando una metodologia che abbia come epicentro il paziente visto in una dimensione globale ed olistica.

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Pragmatica dell’ E.I.T. nella demenza.
Alzheimer e funzione simbolica della tomba e della solitudine.
Psicodinamica e demenza.
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Alzheimer – E.I.T.: una proposta per la riabilitazione.
Alzheimer: psicodinamica e neurofisiologia della perdita della memoria.
Destrutturazione della personalità nella malattia di Alzheimer.
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