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DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER

 

ALZHEIMER, DEPRESSIONE e SINDROME CATASTROFE
Romeo Lucioni

Nel riferimento alla sintomatologia depressiva, distimica o disforica, si trova, nella malattia di Alzheimer, una dinamica trasformatrice che fa pensare a diverse modalità di reazione di fronte all’impatto sulla coscienza delle disfunzioni causate dalle lesioni neuronali.

  1. In una prima tappa, il soggetto registra l’estraneità di disturbi, per lo più mnestici, che interferiscono con le abituali necessità sociali, lavorative e relazionali. Il fuori di sé è dimostrato dall’espressione "… mi sembra qualcosa di strano!", "… non sono più io", "… sto cambiando" e le reazioni risultano depressive, ma viranti verso lo sconforto, l’impotenza e non verso quell’esperienza di lutto interiore e di "perdita dell’oggetto" che connota l’esperienza depressiva classica.

    Lo sconforto genera sensi di vergogna, perdita dell’autostima e una lesione narcisistica che minano la rappresentazione positiva del Sé. Il vissuto come da fuori di sé non permette la formazione di preoccupazioni e/o desideri riparativi, ma sottende a sentimenti di rabbia e di frustrazione.

  2. In una tappa successiva la perdita viene negata, proprio perché la frustrazione genera una tensione interna insopportabile e quindi compaiono modalità adattive più efficaci quali quelle legate alla proiezione. Le espressioni interpretativo-deliranti a carattere persecutorio diventano caratteristiche e dominanti, così che la proiezione della colpa fuori di sé genera risentimento e opposizione ingiustificati. I sentimenti distruttivi che in un primo momento erano rivolti al sé, virano sull’Altro lasciando però una certa capacità di partecipazione sociale sottesa alla rappresentazione di un mondo esterno capace di essere fonte di aiuto, di protezione e di gratificazione.
  3. Una terza fase vede la perdita della rappresentazione degli oggetti interni e si strutturano delle situazioni di anestesia affettiva e di distacco, ben diverse dalle tendenze riparative osservabili nella depressione nevrotica e dall’interazione di impulsi distruttivi, caratteristici della melanconia.

Con il proseguire della malattia, i disturbi psico-mentali investono maggiormente la sfera cognitivo-intellettiva e si accentua l’estraneità che però comincia ad assumere una valenza catastrofica.

Le gravi difficoltà del linguaggio (rivestono il problema della rievocazione della parola e, più tardi, anche la perdita del valore semantico) o la sua scomparsa (sostituito da neologismi) presuppongono diverse reazioni:

  1. inadeguatezza e sostituzione del vocabolo specifico con un altro generico e multicomprensivo;
  2. tendenza a ridurre i contatti verbali e a sostituire i costrutti, intuiti come difficili, con negazioni allusive ("…ma è proprio necessario rispondere?");
  3. acting-out verbale con l’introduzione di verbigerazioni collaterali di carattere ironico, dispregiativo e/o allusivo che vengono messi in moto da meccanismi più riflessi che deduttivi e, quindi, automatici, istintivi ed esclamativi.

Si osserva anche una consapevolezza di perdita delle potenzialità cognitivo-ragionative che induce un vissuto di grave destrutturazione della propria immagine interiore. Questa percezione catastrofica è sicuramente importante nel determinismo del significato simbolico della malattia, dal momento che supera le valenze riflessive proprio perché attinge energia nel mondo empatico-istintivo.

Sarebbe come dire che si è verificato qualcosa di irreparabile del quale però non si riesce a capirne il significato e a misurarne con sicurezza le dimensioni.

Gli occhi attoniti dei pazienti Alzheimer sembrano dare forma a questa "sindrome da catastrofe".

Le osservazioni di precedenti lavori (R.Lucioni e G. Nappi; "Psicodinamica e demenza",1996; R. Lucioni, "Alzheimer e funzione simboloca della tembae della solitudine", 1997) ci hanno portato ad evidenziare come l’ IO si destrutturi se perde i propri oggetti interni e, in questa ottica, come l’Alzheimer sia una malattia legata ad un profondo "disturbo dell’identità".

Quando parliamo di "oggetto interno" non dobbiamo necessariamente rappresentarlo come una figura determinata (per es. la madre, la moglie, il marito, ecc.) perché , come "oggetto virtuale" (vedi R. Lucioni, "Le relazioni oggettuali primitive che contribuiscono alla formazione della figura genitoriale e all’integrazione dell’ IO",1995) può anche essere rappresentato dal proprio corpo (intero o in parte), espresso magari come capacità o come professionalità, come onore, ecc. Se però la perdita dell’oggetto è capace di destrutturare l’ IO è evidente che rappresenta un "fulcro" o "fondamento essenziale" per mantenere "l’identità".

L’esperienza traumatica che acquista i caratteri della "catastrofe", cioè di un evento straordinario che altera l’ordine abituale e caratteristico della struttura personologica e del "ruolo" individuale, si trasforma in "catastrofe psichica" con le sue conseguenze di ordine metapsicologico.

Tenendo conto di queste osservazioni la demenza, nella sua drammaticità, acquista anche caratteri misterici e la lettura psicodinamica ci porta a dare un significato preciso alla sintomatologia che risulta frequente all’osservazione clinica. Lo svuotamento o pauperizzazione dell’ IO genera una tensione interna angosciante che muove ad un tentativo riparatore: emergono modelli primitivi di adesione e di simbiosi con il "seno" che si trasforma in un"oggetto d’amore cannibalico", aggressivo e distruttivo (R. Lucioni, "Alzheimer, come sindrome della tomba e della solitudine", 1997).

L’adesione risulta un elemento utile per il controllo delle angosce derivate dalla perdita, ma, per altro, stimola il sorgere di sensi di ribellione e desideri di "libertà" che sottendono a comportamenti inadeguati, di opposizione, di ribellione e di aggressività.

Il paradigma che lega la depressione, la sindrome catastrofe e l’Alzheimer che, in ultima analisi, coinvolge l’ IO ed il senso di esistere, l’autoidentificazione e la perdita, seguendo il pensiero di Leòn Grinberg ("Colpa e depressione",1990) e la teoria kleiniana del lutto e della dipendenza dall’oggetto, si struttura una particolare dinamica che dà valore ermeneutico ad alcune osservazioni.

Come si è detto, la malattia di Alzheimer può essere considerata caratterizzata dalla destrutturazione dell’ IO e, come catastrofe, dalla perdita dell’identità. Franco Fornari, nell’introduzione al libro di Grinberg (1990), descrive puntualmente come "… la sopravvivenza stessa sembra diventare il codice minimo di identificazione e questo prefigura un oggetto come identificazione".

In un precedente lavoro (R.Lucioni,1995) è stata messa in luce la necessità di instaurare un "primitivo oggetto unico", "l’oggetto genitoriale", come modello perché l’ IO possa strutturare non solo una identità, ma anche la sopravvivenza del Sé e dell’Oggetto che rappresenta la relazione del soggetto con il suo ambiente e, quindi, il senso di realtà.

Se prendiamo atto di queste considerazioni, nell’Alzheimer la "sindrome catastrofica", conducendo alla perdita dell’identità (che risulta "l’oggetto comune di identificazione"), porta alla perdita dell’integrazione tra IO e Sé, tra percepito e reale ed anche tra essere e non essere.

Venuto meno il progetto totalizzante dell’ IO, capace di far emergere i processi di identificazione (auto ed etero) è evidente che il soggetto si trovi in una specie di "limbo" nel quale tutti gli oggetti risultano indefinibili, contradittori e indecifrabili.

A questo punto diventano chiari i meccanismi mentali che sottendono alla malattia:

  1. la destrutturazione porta alla scissione tra seno e fallo, tra senso di essere" e "senso di potere", tra acquiescenza e volontà;
  2. la perdita dell’identità degli oggetti (il Sé, gli oggetti interni ed il mondo reale) stimola una insaziabile ricerca che si manifesta in un comportamento dominato dalla deambulazione e dalla spinta alla fuga;
  3. la predominanza di sentimenti narcisistici arcaici che, in qualche modo, ricuciono la perdita del "senso di sé" ricostruendo un "senso di ruolo", primitivo ed egocentrico-restrittivo: "… ero un buon operaio";
  4. la perdita degli oggetti della realtà fa emergere una "percezione istintiva" che è caratterizzata da un modello globalizzante, empatico ed istintivo, che però non è in grado di disegnare un "verità" su realtà voluminose (per es. una persona) per cui si opera una specie di atomizzazione nella quale elementi "microscopici" (un piccolissimo oggetto sul pavimento o un dettaglio marginale) vengono riconosciuti e ipervalorizzati;
  5. il modello regressivo di fusione con il seno risulta ugualmente una operazione adattiva capace di salvaguardare almeno una parvenza di identità, supportata da valenze arcaiche onnipotenti;
  6. l’identificazione con il "seno" porta da un lato ad un appiattimento su di esso per cui ogni caregiver è mistificato come madre e, per altro, il soggetto si vive come "figlio" (e non più come padre o madre) bisognoso, proiettando questo desiderio in un facinoroso accudimento verso presunti "bambini bisognosi";
  7. questo atteggiamento orale porta a continui ed insaziabili bisogni e richieste che complicano il comportamento già dominato dalla deambulazione afinalistica ed ossessiva e dalla tendenza alla fuga;
  8. l’appiattimento sul "seno" coincide con la scotomizzazione del "fallo" che, scisso, risulta anche pauperizzato così che la figura paterna, nell’Alzheimer, viene dimenticata e privata di valore.

Il quadro Alzheimer che può essere sempre evidenziato risulta però per lo più contradittorio proprio perché la disgregazione egoica porta ad una frammentazione della personalità che, con le sue parti disperse, oscilla in direzioni opposte, mai convergenti.

Oserviamo quindi susseguirsi di momenti psicopatologici diversi e contradittori; per esempio:

  1. marcata opposizione, che talora sfiora l’aggressività, in reazione a proibizioni e/o limitazioni, accompagnate spesso dall’invocazione di "esseri liberi" che possono decidere autonomamente il proprio destino. Queste risposte hanno un carattere libidico-istintivo e dimostrano l’incapacità di assumere comportamenti adeguati e consoni con le circostanze;
  2. frasi di pentimento per aver "fatto del male" ai caregivers che si oppongono alle loro iniziative. Questo atteggiamento dimostra che il soggetto ha un certo grado di coscienza dell’ambiente che può essergli di aiuto, ma anche questa espressione è solamente empatica dal momento che non è accompagnata dalla percezione di trovarsi in stato di bisogno e che i suoi comportamenti sono del tutto incorretti;
  3. espressioni irriverenti versi chi, per altro, viene vissuto come "poderoso", come è il caso, che si verifica spesso, che il medico specialista sia vissuto come persecutorio e che si approfitti della moglie. Queste espressioni a sfondo seesuale, spesso si accompagnano a rifiuto verso chi poco prima era stato investito di onnipotenza e gli atteggiamenti dimostrano l’incertezza nella valutazione dell’altro in rapporto all’autovalutazione, dimostrando una flessibilità dell’autostima;
  4. veementi rifiuti a consumare in casa un cibo ritenuto "cattivo", velenoso o deteriorato, mentre risulta ottimo per es. quello del centro diurno. Questo sintomo riguarda la proiezione di valenze orali e riflette il bisogno di un "seno buono" che non viene riconosciuto nell’ambito familiare;
  5. opposizione al "luogo" familiare e domestico (inclusa la moglie che non viene riconosciuta) vissuto come persecutorio; sentimento dovuto alle difficoltà di riconoscere e/o di decifrare la realtà, cadendo nel disorientamento, così che viene messo in atto un desiderio irrefrenabile di trovare finalmente qualcosa di riconoscibile (ecco spiegate le fughe);
  6. la defecazione può diventare un problema proprio perché si evidenziano problematiche specifiche come: 1) il soggetto si sente "controllato" e violato nella sua intimità per cui reagisce con opposizione; 2) l’emissione delle feci è vissuta come perdita di parti del sé e, di conseguenza, affiorano atteggiamenti di tipo ossessivo-anale. Questo sintomo si accompagna per lo più alla fantasia di onnipotenza, di desiderio di libertà, di negazione di ogni forma di malattia.

Il danno che soffre l’ IO nella "situazione catastrofica" dà luogo a compiersi una vera e propria "atrofia dell’ IO" che sfocerà in una situazione variabile a seconda delle funzioni integrative residue, delle capcità di stabilire contatti con il reale, delle riserve affettive capci di salvaguardare anche parti di oggetti interni riferiti al Sé e all’Altro, della natura e dalla quantità delle funzioni ioiche fatte rivivere da eventuali psicoterapie e da circostanze favorevoli.

Queste osservazioni ri-conducono all’importanza delle nostre esperienze fatte con la "terapia di integrazione emotivo affettiva - E.I.T.", con la quale appunto si mira a ristrutturare valenze motorie, emotive, affettive e cognitive (R.Lucioni e G.Nappi, "Alzheimer – E.I.T.; una terapia possibile",1998). Questo modello psicoterapeutico si configura, quindi, come essenziale per tentare un recupero ed un processo di riabilitazione nella malattia di Alzheimer, da accompagnare, eventualmente, con le terapie farmacologiche che stanno portando a risultati interessanti e stimolanti.  

Secondo l’ O.M.S. nelle prime decadi del prossimo secolo, il 50% delle persone al di sopra degli 85 anni dovrebbe soffrire di disturbi intellettivi ed emotivi caratteristici della malattia di Alzheimer.

Se si pensa che l’allungamento della vita è statisticamente ancora in crescita e che l’aspettativa di vita dovrebbe superare i cento anni, le prospettive sulla demenza cominciano proprio a far paura.

Proprio sulla base di queste osservazioni, in tutto il Mondo si stanno cercando metodi per porre un freno a questa malattia che ormai ha assunto i caratteri di una epidemia silente.

4 La nostra esperienza in questo campo ha portato a sperimentare la E.I.T. (terapia di integrazione emotivo-affettiva) che ha veramente offerto dati molto interessanti. Questo modello di psicoterapia senso-motoria ed emotivo-espressiva si prospetta come stimolante per conseguire il miglioramente degli indici che coinvolgono la motricità, il contenimento emotivo ed il ripristino psico-affettivo e delle capacità attentivo-deduttive, mnestiche e cognitive che si accompagnano a comportamenti più adeguati e più consoni con la vita di relazione.

4 Sul piano farmacologico va sottolineata l’esperienza condotta su 14 pazienti Alzheimer da medici della Facultad de Medicina e dell’Hospital Francés di Buenos Aires con l’uso di alte dosi di melatonina.

Questi dati sono stati da noi confermati in vari casi, nella totalità dei quali si è osservata la ripresa della capacità cognitivo-deduttive, il miglioramento della condotta (atteggiamenti oppositivi ed aggressivi) e della relazione interpersonale.

Va sottolineato ancora una volta (vedi anche R.Lucioni e G.Nappi,1998) che il miglioramento nei casi di malattia di Alzheimer comporta sempre un certo peggioramento della reazioni emotive ed affettive che riteniamo dovuto al ripristino relativo di funzioni neuro-biologiche con conseguente presa di coscienza parziale e/o relativa del proprio stato di malattia e di deficit e con lo scatenamento di tutte quelle reazioni psico-mentali che, come visto nel presente lavoro, determinano quadri di angoscia, di depressione e di confabulazione delirante che, a nostro modo di vedere, debbono essere contenuti dallo specialista attraverso un adeguato supporto degli interventi dei caregivers e mai con una sedazione intensa.


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