NETWORK DI STUDIO
DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER

ALZHEIMER:
rapporti intercorrenti tra medico, paziente,

malattia e caregivers nella quotidianità
e nella terapia di integrazione emotivo affettiva.

Romeo Lucioni, Ida Basso, Marzia Bonetti, Francesca Gobbi, Silvia Pedota  

Le aspettative che ognuno ha di se stesso dipendono anche dall’immagine che gli altrti hanno di lui, la quale influenza fortemente la propriaimmagine che il soggetto vede rispecchiata negli altri.

Il tema delle problematiche familiari che, in ultima analisi si strutturano per lo più all’interno della coppia, affronta in realtà delle dinamiche in continua trasformazione che, per la loro caratteristica di coinvolgimento su argomenti particolari come l’inguaribilità, il costante peggioramento, le difficoltà ad ottenere pause e/o momenti di recupero, le ricadute ed una quantità enorme di circostanze legate al comportamento ed alle psicodinamiche dei pazienti, oltre che la qualità della vita, pongono in primo piano anche la figura del medico curante.

In altre parole, la concettualizzazione teorica e pratica dei rapporti vincolari che il demente stabilisce nel suo "entourage" tiene conto anche dei caregivers e dell’elemento professionale rappresentato dal medico di famiglia e, forse più compiutamente, dal medico specialista che si assume molte più responsabilità di quelle agite nei confronti di qualsiasi altra malattia.

Per poter schematizzare un tema tanto difficile possiamo, per il momento, riferirci a tre figure:

Medico SPECIALISTA

in rapporto con:

  • diagnosi
  • terapia
  • rapporti con i

caregiver

  • le proprie reazioni
  • PAZIENTE

in rapporto con:

  • la malattia
  • relazioni intrapsichiche
  • relazioni interpsichiche

 

MOGLIE

in rapporto con:

  • il paziente
  • il medico
  • le proprie reazioni
  • i problemi sociali
 

Questi personaggi agiscono e vengono condizionati da un "senso dell’Io" che si struttura sulla capacità di:

  • "autoriconoscersi" (riconoscimento soggettivo), che presuppone il poter controllare le proprie tensioni interne, sviluppate sugli assi del potere-non potere e del piacere-dispiacere;
  • ristabilire legami di fiducia (poter fidarsi e poter essere creduto) nei confronti degli altri, che servono anche da setting per gli interventi terapeutici;
  • vivere un’autonomia dell’Io, che potrà essere recuperata qualora vengano superati quei vissuti di alienazione estrema che hanno infranto la soggettività che ogni uomo configura nell’investimento negli oggetti e che viene perduta nello scoprirsi oggetto (cosificazione) nonché nel sentirsi inermi ed impotenti di fronte alla catastrofe;
  • affrontare quell’aspetto terrorifico della malattia che supera le normali possibilità di contenimento psicologico sia soggettivo che sociale.

 

Il medico di fronte a questi malati deve cercare uno spazio di intimità nel quale un rispettoso ascolto ed un atteggiamento poco invasivo e direttivo possono aiutare a ritrovare l’equilibrio perduto. Bisogna rompere quella situazione fatta di mondi sovrapposti che si verifica quando il terapeuta viene investito dalla stessa situazione sulla quale deve intervenire, cioè l’inesorabilità e l’inguaribilità della malattia.

 

Il medico deve affrontare una situazione nella quale la compromissione della propria immagine narcisistica impone un funzionamento primitivo, dominato dall’Ideale dell’Io e dall’Io ideale, che vanifica le possibilità sublimatorie.

 

Il rapporto tra queste tre figure chiave che si relazionano con la malattia di Alzheimer varia continuamente con il progredire della sintomatologia, così possiamo estrapolare diversi momenti caratteristici.

 

A – PRIMA FASE DELLA MALATTIA

Diagnosi ???

Terapia ???

Fase di studio

Buon legame con i

famigliari

 

problemi

attenzione a non spaventare i parenti oltre che il paziente

 

situazione intrapsichica

sicurezza di sé

  

Perdita della memoria- lavoro

Percezione di difficoltà psicomentali

Negazione e rifiuto della malattia

Percezione di sentirsi studiato

 

problemi

difficoltà psicomentali nelle applicazioni ordinarie

 

situazione intrapsichica

sensi di ansia e di angoscia

sensi di perdita – angoscia di castrazione

difesa della libido per cercare di superare la crisi e salvaguardare il Sé

Negazione e rifiuto della malattia per salvaguardare

l’investimento libidinale degli oggetti

Meccanismi di difesa per salvarsi dalla colpa

 

problemi

Verificare la realtà della malattia e/o dei sintomi

 

situazione intrapsichica

scarsa presa di coscienza e delega totale al medico (fugge se troppo investita dal medico curante)

 

In questa fase l’equilibrio relazionale è ancora abbastanza conservato potendo essere rispettato un abituale investimento sui ruoli e riuscendo a fondare il senso del futuro nella "speranza" di una cura e, soprattutto, di una guarigione.

I primi segni di malattia vengono confusi con un normale processo di perdita funzionale dovuta all’età anche se la qualità degli stessi ha una impronta di specificità: l’eventuale presenza di un "fatto critico" avvenuto un anno circa prima dell’inizio della sintomatologia; la presenza di una certa incontinenza emotiva; l’andamento progressivo e non a scalini; la "siderazione" affettiva che viene per altro coperta da un accentuarsi di bisogni di dipendenza e di adesività; il cambiamento della personalità e l’indifferenza di fronte ai bisogni sessuali. 

B – SECONDA FASE DELLA MALATTIA

Diagnosi = sicura

Terapia ?? aleatoria

Consigli = sì, ma con qualche difficoltà

 

Problemi

Contenimento dei disturbi disturbi del comportamento

Difesa dagli attacchi dei parenti

 

Situazione intrapsichica

Difesa dallo scoraggiamento, dal senso di impotenza, dalla perdita dell’onnipotenza professionale

Crisi di opposizione

Errori comportamentali

Crisi di angoscia

Incontinenza emotiva

Tendenza a minimizzare e a colpevolizzare gli altri

Perdita:

a)- del linguaggio e uso di circonvoluzioni

b)- della memoria a breve termine

c)- del lavoro

 

Problemi

Compromissione del comportamento

 

Situazione intrapsichica

Perdita dell’investimento libidico

Sensazioni catastrofiche

Chiusura su di sé

Perdita dell’affettività

Spostamento sulle dinamiche dell’angoscia di morte

 

Coscienza della gravità

e dell’inguaribilità

Colpevolizzazione del medico

Ricerca di informazioni

 

Problemi

Necessità di una assistenza continuativa

 

Situazione intrapsichica

Sbalordimento e paura di fronte alla variabilità ed alla "grandezza" della sintomatologia

Aumento dell’autostima:

perdita dell’oggetto

 

regressione narcisistica

 

onnipotenza

Scarsa delega al medico (svalorizzato)

Incredulità di fronte alla mancanza di terapie farmacologiche

Assunzione di un ruolo materno

 

Questa seconda fase di rapporto con la malattia vede profondi cambiamenti nei protagonisti che devono contenere un senso di sbalordimento e la percezione di impotenza e di inadeguatezza.

Diventa sempre più evidente il bisogno di una diagnosi precoce e della messa in atto immediata di tutte le funzioni contenitive possedute: prima di tutto una precisa informazione sulle caratteristiche della malattia da offrire ai parenti e l’inizio di terapie adeguate, soprattutto quelle non farmacologiche tra cui l'E.I.T. che mira a ricompattare le lacerazione delle strutture ioiche.

Le difficoltà ad accettare una malattia tanto distruttiva, purtroppo conducono al rifiuto di "perdere tempo" per accompagnare il paziente alle sedute di psicoterapia (compito che viene affidato ad altri) anche quando viene, con molta precisione, fatto osservare come sia pericoloso non iniziare subito la terapia, anche perchè i peggioramenti iniziali non sono facilmente superabili. Risulta purtroppo sempre evidente che più tardi "si pagheranno tutte le cose che non sono state fatte a suo tempo.

È in questa fase che generalmente la moglie discute con i figli che vorrebbero un suo maggior impegno nell’assistenza e nel tentativo terapeutico.

 

C – TERZA FASE DELLA MALATTIA

Diagnosi confermata

Terapia inefficace (non guarisce)

Controllo dei disturbi comportamentali

Perdita dell’onnipotenza

Ricerca di condivisione

Consigli ai caregivers

 

Problemi

Contorllo farmacologico dei sintomi psicopatologici

 

Situazione intrapsichica

Senso di responsabilità

 

 

Grave sintomatologia:

fughe, irrequietezza, errori nel riconoscere

anche i famigliari

 

problemi

necessità di contenimento

 

situazione intrapsichica

senso di angoscia e di morte: sindrome catastrofe

Il mondo psichico si stringe sul sé e compare una regressione di dipendenza (adesività con la figura materna)

 

 

Maggiore presa di coscienza

Richieste di aiuto alle associazioni volontarie

Perdita dei "tempi personali"

 

Problemi

Assistenza 24 ore su 24

Difficoltà a contenere

Rifiuto del ruolo di "madre"

 

Situazione intrapsichica

Dolorosa presa di coscienza della perdita

Accuse generalizzate

 

 

In questa terza fase, è importantissimo sostenere la figura della moglie che risulta il personaggio più a rischio, proprio per le necessità di una assistenza pressante e continuativa.

Sarebbe necessario un buon funzionamento di strutture come i centri diurni per dementi ed i day-hospital, per poter concedere "pause di respiro" ed iniziare precocemente terapie atte al recupero funzionale.

La terapia E.I.T. viene eseguita con la partecipazione dei parenti (in questo caso la moglie) proprio per permettere l’assimilazione di elementi capaci di contenere le perdite ed i sentimenti di colpa, strutturando un senso di capacità e di sicurezza di fronte alle problematiche che interagiscono poderosamente con lo psichismo.

Le scelte terapeutiche debbono precocemente essere accettate ed avviate dal medico di base che troppo spesso non le conosce e, quindi, si limita ad interventi farmacologici (anticolinesterasici) che non sono ancora sufficientemente validi.

A tale proposito, ricordiamo che, nelle prime settimane di somministrazione, un placebo dà gli stessi risultati delle "famose medicine" e ciò sta ad indicare che con un minimo di "attenzione" esercitata dagli assistenti si può influire positivamente sui sintomi (resta comunque ancora da dimostrare quale sia il preciso e reale meccanismo per il quale si ottiene questo risultato).

Questa fase, per così dire, di transizione dovrebbe risultare più corta possibile, proprio per la necessità di passare rapidamente agli interventi terapeutico-riabilitativi capaci di offrire qualche speranza, non tanto verso la guarigione, ma verso il rallentamento dell’inevitabilità del processo patologico.

Spesso nei parenti si insinua, oltre allo smarrimento, un senso di disperazione che fa sì che non si creda più in nulla e, ancora una volta, è il medico o lo specialista che deve far conoscere e far capire (in questo modo anche lui può recuperare parte alla sua sicurezza e della sua fiducia).

 

D – QUARTA FASE DELLA MALATTIA

Nuovi interventi terapeutici = EIT

Maggior presa in carico

Stretta collaborazione con i caregivers

Prospettive di recupero sociale

 

Problemi

Difficoltà a organizzare nuovi interventi

 

Situazione intrapsichica

Soddisfazione professionale

Presa di coscienza di curare anche di fronte all’inguaribilità

Miglioramento psicofisico

Ritorno di problematiche depressive

Senso di recupero

Maggiore autocoscienza

 

Riemergono problematiche profonde

 

Problemi

Grosse necessità di assistenza di tipo sociale

 

Situazione intrapsichica

Angosce profonde

Ricomparsa di vecchi conflitti  

Affidamento al medico

Maggiore accettazione di un possibile ricovero

Aumento dell’impegno

Aspettative su aiuti da ricevere

Accettazione di nuove proposte terapeutiche e assistenziali

 

Problemi

Maggiore impegno assistenziale

 

Situazione intrapsichica

Perdita dell’onnipotenza

Maggiore adesione alla realtà

Recupero di valenze libidiche del sé

Coscienza di "salvezza"

personale

colpevolizzazione verso l’esterno

 

APERTURA VERSO IL CENTRO DIURNO

ACCETTAZIONE DEL RICOVERO DEFINITIVO

La quarta fase prevista in questo schema tiene conto di interventi psicoterapeutici che hanno l’obiettivo di reintegrare le funzione dell’Io (Terapia di Integrazione Emotivo-affettiva) e che comportano notevoli miglioramenti nelle quattro aree considerate: senso-motoria, emotiva, affettiva e cognitiva.

Questi miglioramenti implicano la necessità di attente osservazioni da parte dello specialista perché:

  1. ricompare facilmente una sintomatologia ansioso-depressiva, già vissuta nelle prime fasi della malattia, che equivale al recupero di un certo grado di coscienza di perdita, di indeguatezza e di sentimenti legati alla "paura di fare del male ai propri cari" (essere di peso). Queste reazioni abbisognano, per lo più, di un intervento farmacologico contenitivo a base di antidepressivi (generalmente quelli della nuova generazione IRRS);
  2. si manifestano nuovamente "desideri" (a volte si riacquista qualche stimolo sessuale) che portano con sé richieste di impiegare il tempo in passeggiate, attività in genere e quindi è necessario mettere il paziente in grado di riacquisire capacità di socializzazione;
  3. emergono, a volte, tematiche conflittive profonde (spesso hanno carattere quasi delirante) che erano state nascoste nell’inconscio attraverso la perdita della memoria. Questi nuclei mnesici, alterando profondamente la struttura dell’Io, sono particolarmente pericolosi e, se non vengono controllati rapidamente, determinano un peggioramento, immediato e critico, con crisi di tale violenza che arrivano a rendere necessario un rapido ricovero, poiché sono poco controllabili farmacologicamente. Queste crisi devono quindi essere evidenziate precocemente ed affrontate con una psicoterapia di riminiscenza catartica e di accompagnamento (spesso si interviene anche con l’aiuto dei famigliari più stretti).

 

Va notato che la relazione tra i diversi "attori", che intervengono nel "dramma" dell’Alzheimer, risultano distorte dal momento che prevalgono in esse le parti soggettive dominate dalla "scoperta" di una realtà sindromica dominante ed inguaribile.

Lo spostamento avviene, avendo abbandonato le speranze in una guarigione, verso il versante della "curabilità", che comporta anche una soggettivizzazione del rapporto con la malattia e con la prevaricazione di processi affettivi che riguardano l’autoritenersi validi e, soprattutto, ritenere l’intervento "adeguato" rispetto ad altri che non lo sono.

La mancanza di mediazione simbolica (il farmaco) tra terapista e caregiver da un lato e, dall’altro, tra operatore e paziente porta ad una soggettivizzazione che sfiora il narcisismo.

Lo spostamento dall’oggettivo al soggettivo induce a iperdimensionare un rapporto nel quale le dinamiche emotivo-affettive superano quelle cognitivo-razionali.

Quanto detto riguarda specificamente la "Terapia di Integrazione Emotivo-affettiva" (E.I.T.), nella quale la ristrutturazione dell’Io avviene appunto attraverso l’impegno su assi emotivi ed affettivi. La vicinanza, il proporsi come modello, l’insistere su valenze di autovalorizzazione e sulla ri-scoperta delle potenzialità individuali, l’uso del corpo come intermediario simbolico ed oggetto trasizionale, le modalità regressive che implicano valenze libidiche e istintive, l’uso della musica, sono tutti elementi che portano l’E.I.T. a strutturare dinamiche profonde capaci di suscitare quelle valenze di desiderio e di volontà che devono risultare la chiave e/o la "combinazione" necessaria e insostituibile per ripristinare le caratteristiche dell’Io.

Questo modello, che presuppone, come è stato più volte ricordato, il superamento della diagnosi e della dipendenza dalla malattia (sostituite dalla comprensione di modalità psicodinamiche complesse e da una relazione con il paziente nella sua globalità) porta inevitabilmente a mettere il terapeuta, così come i caregivers, all’interno della scena che rappresenta il rapporto tra paziente e disabilità.

In questo modo il rapporto terapeuta-paziente e/o caregiver-assistito diventa asimmetrico in quanto la disabilità sgretola le possibilità-capacità di una delle parti, così che l’altra deve assumere la maggior parte delle responsabilità.

Queste si evidenziano nelle dinamiche rassicuranti, di comprensione e di sostegno che vengono messe in atto perché il soggetto possa contenere le proprie angosce e, quindi, evitare di mettere in atto meccanismi paralizzanti che pauperizzano le sue dinamiche vitali.

 

In questo "teatro particolare", in questo "spazio vincolare", si sviluppano rapporti reali e simbolici che rispecchiano ed anche influiscono sulla struttura psicologica dei partecipanti.

È stato detto (S.Pedota – D.Scherani) che questa "ecologia di approccio" esalta la specificità della relazione che così risulta strumento di accesso al patrimonio affettivo del malato, ma possiamo anche vederlo come elemento chiarificatore dei patrimoni psico-affettivi personali degli altri attori, drammaticamente posti di fronte ad una perdita quasi incolmabile.

La triade in esame tende, quindi, a stabilire nuove valenze prospettiche dell’esistenza, nel senso di ri-creare flussi eidetico-volitivi che mirano al futuro, al divenire, al cambiamento ed al recupero. Ricostruire linee di speranza e lumi di programmabilità è, in fondo, l’obiettivo terapeutico-curativo nel quale riemergono anche le reali possibilità di un insuccesso, senza però che queste inducano sensi di colpa, di incapacità e di inefficacia.

La liberazione dalla colpa porta con sé la possibilità di accettare senza problemi un eventuale ricovero nel caso non si riesca a contenere l’inesorabilità della malattia e senza cadere in quella spirale lugubre che accompagna la percezione di una evoluzione catastrofica e, come riflesso, di una angoscia mortifera.

Queste dinamiche portano a considerare gli effetti collaterali dell’uso della psicoterapia E.I.T. che, accanto ai risultati positivi sull’evoluzione dei sintomi psicopatologici che accompagnano l’Alzheimer, annovera una serie di cambiamenti di natura psicodinamica nelle relazioni tra medico, paziente e caregiver.

Le dinamiche relazionali ed i linguaggi (vedi Lucioni-Basso) che si mobilizzano nel rapporto terapeutico insito nell’E.I.T. e, di conseguenza, i cambiamenti indotti nei pazienti che, in qualche modo, recuperano una certa spontaneità, tendono anche a frantumare l’atteggiamento di dipendenza e di adesività che si presentano come segni della malattia, ristabilendo il valore della soggettività e dell’indipendenza tra terapeuta, paziente e caregiver.

Questa osservazione apre le porte alla programmazione di aspetti sociali, di interventi che devono seguire la terapia e le valenze terapeutiche a questa connesse, coinvolgendo un numero maggiore di compartecipanti (caregivers ed operatori di Associazioni di Volontariato).

 

E.I.T. – parenti e cargivers

La metodica terapeutica dell’E.I.T. prevede la presenza di un parente per ogni paziente, che lavora però separatamente (vedi considerazioni in S.Pedota – D.Scherani). Ciò porta ad una accettazione positiva non solo del metodo, ma, soprattutto, di ogni miglioramento del proprio famigliare, che si vede anche riflesso in quello degli altri pazienti.

Spesso sono i malati ad andare a cercare il loro parente e questo, oltre a dimostrare un recupero cognitivo, porta il caregiver a ri-conoscersi come oggetto amato, abituato, colmato di fiducia e, inoltre, riconoscibile come punto di riferimento.

Queste ri-scoperte propongono il recupero di uno "spazio interiore" dove ricreare una reciprocità ed anche una rivisitazione erotico-sentimentale ormai da anni perduta.

Anche se non lavorano insieme, gli integranti della coppia di riferimento riscoprono modalità abituali, per lo più di una certa aggressività, che, però, risulta plasmabile e superabile quando il paziente scopre nuove potenzialità e osserva un recupero delle proprie funzioni motorie, affettive e cognitive (l’aggressività é sempre un mezzo per comunicare quando non ci siano altre possibilità più evolute).

A volte, questi miglioramenti sono difficili da quantificare, ma è facile da osservare, invece, come le "modalità di compromettersi nell’esperienza" evidenzia un ritrovato spirito soggettivo e di persona, espressione di cambiamento e di sviluppo.

Uscire dalla "stagnazione" e dal declino progressivo sono gli elementi che fondano il giudizio e riempiono i caregivers di soddisfazione e di gioia.

Dal punto di vista del terapeuta, è importante sottolineare questi risultati che seguono i momenti di perplessità, di incredulità ed anche di sfiducia che si leggono sempre al momento di iniziare la terapia di integrazione psico-fisica; questo porta tutti gli operatori a recuperare le proprie "forze libidiche" e a credere profondamente in ciò che si sta facendo.

Un aspetto importante della terapia di integrazione (E.I.T.) è la valutazione dei risultati degli interventi che permette di scoprire il raggiungimento di una "nuova" organizzazione psichica.

Più precisamente si considerano:

  • la sofferenza dei parenti di fronte al riconoscimento delle perdite psico-fisiche (soprattutto senso-motoria) che sempre sono disconosciute e, in un secondo tempo, la soddisfazione nel poter riconoscere i recuperi, i ripristini e, quindi, il livello di riabilitazione;
  • la risposta dei parenti quando vengono spiegati gli obiettivi della terapia, molto spesso neppure ipotizzati proprio perché predomina l’accettazione del "disastro". Queste persone devono essere riabituate a pensare in positivo, a credere nel recupero di funzioni e a perdere quella che possiamo chiamare "l’assuefazione all’inesorabilità della perdita";
  • le dinamiche transferali e contro-transferali la cui conoscenza risulta indispensabile per controllare le situazioni, gli accadimenti ed i vissuti che arricchiscono il setting terapeutico;
  • il comportamento, durante le sedute, dei pazienti e dei loro caregivers (oltre, naturalmente, a quello degli operatori) perché anche nelle esperienze semplici, che spesso assomigliano ad un gioco, si possono evidenziare tutte quelle sfumature di difficoltà senso-motorie, di problematiche emotivo-affettive, di complicazione relazionale che, nel loro complesso, danno lo spunto e giustificano gli interventi del direttore come se si trattasse di una vera seduta psicoanalitica;
  • lo "stato emotivo-affettivo" dei partecipanti che è direttamente in relazione con quanto ogni soggetto vuole farci conoscere circa le sue sensazioni, i sentimenti, le reazioni, i dubbi e gli interrogativi.

L’osservazione e la riflessione sulla condotta, sulle reazioni emotive, sulla partecipazione affettiva, sulle difficoltà prassiche e cognitive forniscono materiale insostituibile per programmare e per condurre le sedute terapeutiche, proprio perché le reazioni emotive e le interferenze affettive influiscono poderosamente sulla percezione sensoriale e, soprattutto, sulle rappresentazioni mentali della realtà e dei vissuti.

Va ricordato anche che, lavorando con pazienti che soffrono di deficit senso-motori, pauperizzazione affettiva, incontinenza emotiva e fragilità cognitiva, sono moltissime le comunicazioni non verbali, gli "stati primitivi" della relazione interpersonale, i modelli precognitivi della percezione della realtà, gli errori analitico-deduttivi: tutti questi fattori vanno considerati, analizzati ed utilizzati per captare i problemi mentali, le linee guida assunte per esistere, i vissuti palesi e profondi, le aspettative ed i bisogni. Senza questo lavoro la terapia rischierebbe di immettersi in una strada a fondo cieco, pauperizzandosi in un semplice esercizio ludico-ricreativo.

 

Specificità del rapporto cargiver-malattia.

Abbiamo sin qui individuato il cargiver nella persona della moglie per poter procedere ad un’analisi chiara e precisa del versante interpsichico che lega i protagonisti di quello che abbiamo denominato "il dramma".

Non ci resta ora che chiarire altre possibilità.

 

Quando il cargiver è il marito

le evidenze sono abbastanza simili a quelle già descritte, anche se il coniuge maschio:

  • dimostra un più evidente smarrimento, come se non sapesse proprio cosa fare. L’impegno forse è lo stesso, ma c’è come una mancanza di "abitudine" ad affrontare certi problemi ed anche una tendenza a minimizzare le problematiche;
  • c’è una minore partecipazione soggettiva nel lavoro riabilitativo (le sedute di E.I.T.), durante il quale si osserva quasi una propensione a preferire l’attività svolta con gli altri pazienti;
  • con più facilità viene accettato l’aiuto degli altri e si nota una sfumata tendenza a scaricare il "fardello";
  • è più portato a colpevolizzare gli altri e le circostanze della vita che l’hanno "punito" in questo modo;
  • è meno evidente l’assunzione del ruolo di "maternage", così diventa più solido e più favorevole l’accordo con il medico e l’affidarsi a lui.

 

Quando il caregiver è la figlia

Diventa molto evidente un senso di colpevolizzazione che però rende più fievoli gli atteggiamenti di "maternage"; la nuova famiglia resta al primo posto, per cui facilmente viene accettato un ricovero. Il legame con il genitore viene vissuto come pericoloso per i vincoli con la "sua" famiglia (marito/moglie e figli) anche se questa non salva dai sentimenti di colpa che costringono ad una presa in carico che però lascia aperte le porte al ricovero.

In queste dinamiche risulta abbastanza chiaro come:

  • la moglie partecipi alle terapie riabilitative con entusiasmo, con trasporto personale, con dedizione e con grande parteciapazione;
     
  • la figlia, invece, pensando di rubare tempo a marito e figli, non riesce a vivere l’esperienza come qualcosa che può cambiare anche lei; considerazioni che spiegano la sfiducia e la minimizzazione dei risultati ottenuti.

 

COMMENTO

Il tema qui affrontato non può essere considerato totalmente sviscerato e risolto, né completamente compreso: sono troppe le variabili e sono eccessivi i quadri che devono essere presi in considerazione perché è diverso non solo ogni malato, ma anche ogni caregiver e ogni terapeuta.

Il nostro obiettivo è quello di far conoscere una esperienza nuova, utile per evidenziare situazioni di transfer e di contro-transfer, tanto pregnanti da far pensare a poderosi meccanismi di negazione e di proiezione, messi in atto per annichilirli.

Una medicina fondata su un approccio olistico con la "persona" ed interdisciplinare, lo spostamento verso la centralizzazione del paziente e non della malattia, l’importanza delle "forze" psicopatologiche che accompagnano le espressioni genetico-biologiche, la partecipazione di concomitanti socioculturali nel determinismo dell’espressione clinica, dell’eziopatogenesi e dell’evoluzione di una qualsiasi espressione morbosa, sono stati segni e scoperte che ormai influenzano anche la ricerca scientifica più accreditata.

Da un altro punto di vista, questo approccio all’Alzheimer ha portato ad individuare l’importanza delle compromissioni sociali, sia per quanto riguarda le relazioni con i caregivers, sia per l’implicazione inevitabile e, soprattutto, auspicabile di interventi delle forze del volontariato sociale che devono però capire l’importanza di una preparazione e di una formazione adeguate, oltre che (forse è la scoperta più recente) di un preciso, accurato, professionale e specifico controllo dei risultati di ogni intervento.

In questo modo le tematiche interpsichiche possono non risultare più un fattore negativo, per essere poco controllate, ma, al contrario, un punto nodale per lo sviluppo non solo di un semplice apporto terapeutico individuale, ma come la molla capace di lanciare una prospettiva riformatrice.

L’analisi di una sorta di semplice gioco relazionale diventa l’occasione di uno studio di meccanismi mentali manifesti e/o profondi, la possibilità di tracciare linee guida verso il recupero di valori individuali e/o sociali non solo perduti, ma caratteristici e per questo indispensabili per la "vita" di una società in continua e profonda trasformazione.

L’occasione dell’approccio all’Alzheimer si può leggere anche come rapporto con un insieme di linguaggi che, nella loro valenza comunicativa, per lo più non verbale, conducono al superamento di "impasse" e di tergiversazioni oltre che all’accettazione dell’Altro che ha pieno diritto di essere se stesso e di essere considerato "persona", anche quando le sue capacità cognitive sono ridotte o vanificate.

In questo lavoro, abbiamo potuto vedere che un processo di riabilitazione significa per lo più un recupero della consapevolezza che riguarda non solo i pazienti, ma anche i caregivers, gli specialisti e gli operatori.

Queste nuova "coscienza di sé", come autoriconoscimento ed autovalorizzazione, contiene implicita la sicurezza che le nostre forze psichiche non si alimentano solo di cognizioni e di sapere, ma anche di volontà, di desiderio, di "mettersi dentro", di capire, di accettare un coinvolgimento con tutte le forze dell’entourage individuale e sociale.


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