TITOLO: LA DINAMO FUTURISTA.
OMAGGIO A UMBERTO BOCCIONI
PRIMO CONTI - DISEGNI PER HARRIET QUIEN, “LA DONNA CHE VENNE DAL MARE”, 1912-1925

SEDE: Museo d’Arte
Riva Caccia 5
CH - 6900 Lugano

MASILugano

DATE: Dal 15 febbraio al 19 aprile 2009


 

Presentazione
La dinamo futurista.
Omaggio a Umberto Boccioni
Primo Conti - Disegni per Harriet Quien, “La donna che venne dal mare”, 1912-1925


Nel centenario della nascita del futurismo, il Museo d’Arte di Lugano contribuisce alle celebrazioni di questo importante anniversario con una duplice mostra.
La prima, che occupa il primo e secondo piano del museo, propone un omaggio a Umberto Boccioni (1882-1916), uno dei maggiori esponenti di questa fondamentale avanguardia artistica del primo Novecento.
La seconda, che si snoda nelle sale del terzo piano, è dedicata a una scelta di disegni dell’artista fiorentino Primo Conti (1900-1988), sodale di Boccioni.
Ed è proprio la relazione artistica del giovane Conti con il maestro Boccioni, che si evince dalla sua autobiografia La gola del merlo (1983), una delle ragioni per cui si è voluto coniugare in un unico momento espositivo la presentazione del lavoro di due artisti che, ognuno con la propria temperie, hanno influenzato l’estetica del XX secolo.
La mostra, che offre un primo confronto con il disegno di Conti e che permette di vedere nuovamente a Lugano, integrate da numerosi disegni, le opere di Boccioni in un momento in cui la sua produzione maggiore, soprattutto di conio futurista, è osservabile a Parigi, Roma, Londra e Milano, pone il Museo d’Arte, quale naturale sede interlocutrice, tra le altre mete di un viaggio conoscitivo pieno di promesse e verifiche attraverso uno dei periodi artistici più fervidi dell’arte del XX secolo, caratterizzato da profondi e radicali sconvolgimenti culturali.


 

Comunicato stampa

La dinamo futurista.
Omaggio a Umberto Boccioni
Primo Conti - Disegni per Harriet Quien, “La donna che venne dal mare”, 1912-1925

Museo d’Arte, Lugano (CH)
15 febbraio – 19 aprile 2009


Proprio a febbraio del 2009 ricorre il centenario della fondazione del movimento futurista. Il contributo che il Museo d’Arte di Lugano intende dare alle celebrazioni di questo importante movimento è focalizzato su un omaggio a Umberto Boccioni, uno dei protagonisti del futurismo, che più di altri ha contribuito alla sua nascita e al suo sviluppo. Un piano del museo è dedicato alla produzione giovanile del futurista fiorentino Primo Conti, sodale di Boccioni.

Omaggio a Umberto Boccioni

Nell’ambito della mostra dedicata a Boccioni, che occupa il primo e il secondo piano del museo, sono per la prima volta messi in dialogo due importanti nuclei dell’artista: le opere su carta di proprietà dello Stato italiano conservate alla Galleria Nazionale di Cosenza in Calabria, regione nativa di Boccioni, e le opere prefuturiste presenti nella Collezione della Città di Lugano.

Quest’ultima raccoglie ventuno opere realizzate dall’artista tra il 1903 e il 1909 provenienti dalla raccolta d’arte dello stampatore Gabriele Chiattone donata alla Città di Lugano nel 1961. Un numero importante di queste opere è stato presentato in occasione della mostra Boccioni prefuturista tenutasi al Museo Nazionale di Reggio Calabria nel 1983 mentre il nucleo nella sua totalità alla mostra Opere d’arte della Città di Lugano. Donazione Chiattone presso il Museo Civico di Belle Arti di Lugano nel 2006-2007.
La Galleria Nazionale di Cosenza conserva una serie di opere su carta già appartenute ad una delle più prestigiose collezioni americane, quella di Lydia e Harry Winston, successivamente acquistate da Carlo F. Bilotti e infine confluite nella collezione della Galleria Nazionale di Cosenza nel 1996. L’insieme è costituito da sessanta fogli con ottantacinque disegni di periodi diversi, relativi al periodo della formazione, all’esperienza prefuturista e con alcuni significativi fogli del periodo futurista. Il fondo è stato studiato e presentato al pubblico in occasione della mostra Umberto Boccioni. Una raccolta di disegni e incisioni presso il Museo d’Arte dell’Otto e Novecento di Rende nel 2008.

L’impostazione dell’esposizione ha una valenza innanzitutto filologica, di messa in dialogo dei due nuclei boccioniani a cui saranno integrati una serie di complementi provenienti da altre collezioni pubbliche e private svizzere e italiane pertinenti alle opere presenti nell’istituzione ticinese e in quella cosentina.
Di particolare interesse sono gli accostamenti inediti in mostra di alcuni studi preparatori con le relative esecuzioni ad olio come nel caso ad esempio di Contadini al lavoro e Campagna lombarda.
L’obiettivo, oltre a proporre un percorso attraverso l’opera di Boccioni dai primi anni del Novecento fino alle prove del 1915 – ovvero dal divisionismo di impronta naturalistica, attraverso il simbolismo e il futurismo, fino alle ultime prove di impostazione cézanniana – è quello di valorizzare le opere delle due collezioni pubbliche mediante l’accostamento di olii, disegni e grafiche evidenziando alcune procedure creative e illustrandone le tappe più significative.

Alla presentazione della mostra al Museo d’Arte di Lugano farà seguito una tappa della stessa in Calabria.

L’esposizione ideata da Bruno Corà, a cura di Tonino Sicoli e Cristina Sonderegger, sarà accompagnata da un catalogo edito da Silvana Editoriale con contributi critici dei curatori, di Maurizio Calvesi e l’illustrazione a colori di tutte le opere in mostra.

Primo Conti
Disegni per Harriet Quien, “La donna che venne dal mare”
1912-1925

La mostra di Primo Conti, a cura di Daniela Palazzoli, occuperà il terzo piano del museo. Nell’anno in cui si celebrano i primi cento anni del Movimento Futurista Italiano, pubblicizzato ufficialmente da Filippo Tommaso Marinetti sul quotidiano “Le Figaro” di Parigi il 20 Febbraio 1909, la mostra ripercorrere in modo sintetico e qualitativamente alto gli esordi di Primo Conti (1900-1988), dai primi disegni di timbro espressionista alla sua ormai celebre fase futurista, fino ad un breve periodo di ispirazione metafisica che si conclude intorno al 1925 con il ritorno ad una costruzione più classica dell’opera d’arte.

Questo è reso possibile dalla selezione di un nucleo di una sessantina di disegni facenti parte della raccolta di un suo grande amore giovanile, la Signora Harriet Quien, che egli conobbe nei primi anni Venti sulla spiaggia di Antignano dove era solito passare le vacanze, come si racconta in un capitolo delle sue memorie intitolato La donna che venne dal mare.

La convergenza dell’aspetto artistico con quello privato consente anche di sfatare una delle leggende che circondano la figura giovanile di questo enfant prodige dell’arte d’avanguardia, che comincia a disegnare e dipingere in età precocissima, con un’urgenza ed una serietà che lo portano ad ignorare i trastulli infantili e dell’adolescenza. Così sintetizza in modo lapidario questa condivisa impressione lo scrittore e suo amico Giovanni Papini: “Primo Conti di Firenze, nato col secolo, fu pittore prima ancora d’essere uomo”.

Disegnatore fecondo, Primo Conti usava la matita come strumento di grande immediatezza utile per fissare impressioni, dettagli e concetti base dei fatti e personaggi reali che incontrava quotidianamente, da rielaborare eventualmente in seguito. In questo percorso di scoperta e messa a punto dei suoi stili attraverso le quattro fasi iniziali della sua attività conferma la sua fama di “cartina di tornasole di tutte le avanguardie” (Vanni Scheiwiller).

Lo scavo compiuto da Daniela Palazzoli per ricostruire la personalità e la vita di Harriet Quien (1900- 1981) – che, per esempio, pretendeva di essere chiamata ‘Harry’ perché “non è il sesso a definire la personalità delle persone” - ci mostra una donna straordinaria, poliglotta e cosmopolita, in anticipo sui tempi, e dotata di capacità di valutazione e di movimento a 360 gradi, che oggi possiamo definire da globalizzazione avanzata. Conti dimostra, nei suoi scritti e nei documenti conservati presso la Fondazione Primo Conti di Fiesole, di rendersi conto della eccezionalità della sua Musa; il che è una delle ragioni del suo amore per lei. In questo incontro fra due coetanei, nati entrambi col secolo, si realizza quella aspirazione di continuità fra arte e vita che Primo Conti aveva scoperto quando, appena quattordicenne, aveva contribuito ad allestire la mostra di Umberto Boccioni a Firenze e, ancora prima di conoscerlo e condurlo a visitare su sua richiesta le sculture dei Prigioni di Michelangelo, aveva provveduto a restaurare uno dei suoi gessi da esporre in mostra. Primo Conti scoprì in quell’occasione che Umberto Boccioni amava usare materiali deperibili perché: “l’opera d’arte per essere viva deve aver la stessa sorte dell’uomo e subire, come l’uomo, la malattia e la morte” (Boccioni). Incluso anche l’amore: come prevede la coerenza fra arte e vita.


 

Presentazione
La dinamo futurista.
Omaggio a Umberto Boccioni
Bruno Corà


Nel corso delle attività di allestimento di una mostra di opere di Alighiero Boetti, da me curata e tenutasi a Cosenza, in Palazzo Arnone nel decennale dalla scomparsa dell’artista, venni a conoscenza della conservazione presso quella sede pubblica del fondo di disegni e incisioni di Umberto Boccioni, già appartenuti alla collezione Winston Malbin. In una seconda iniziativa, dedicata alla “visitazione” da parte dell’opera di un protagonista dell’arte contemporanea come Jannis Kounellis della pittura del pittore seicentesco Mattia Preti, mi fu offerta l’opportunità di prendere visione delle opere di Boccioni custodite presso la Soprintendenza calabrese. Ho voluto ricorrere a questi due antefatti per chiarire i momenti e le circostanze nelle quali ha preso corpo il desiderio di dedicare una mostra a Boccioni, finalmente divenuto realizzabile allorché, con l’inizio delle attività del Polo Culturale della Città di Lugano, si rendeva concreta l’ipotesi di avvicinare ai disegni e alle incisioni di Cosenza il cospicuo numero di oli di Boccioni facenti parte della donazione Chiattone, oltretutto in buona parte integrabili gli uni agli altri come le due facce di una sola medaglia. Infatti, sono numerosi i disegni del grande artista italiano che hanno costituito gli “studi” preparatori per gli oli presenti nelle collezioni civiche luganesi.
Il progetto a cui miravo per una mostra inedita che il Dicastero Attività Culturali e il Museo d’Arte di Lugano potevano tentare di realizzare. È così che ha avuto inizio un lavoro di ricerca affidato a Cristina Sonderegger e a Tonino Sicoli, curatori della mostra alla quale ho inteso dare il mio attivo contributo, sensibilizzando collezionisti privati e sedi pubbliche in grado di arricchire l’episodio con altri esempi significativi del grande protagonista del futurismo. E le risposte positive non sono mancate.
Con questa mostra si avvia una collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria e si rinsalda quella con la Biblioteca Cantonale di Lugano, nella quale non mancano interessanti pubblicazioni e documenti che, per la circostanza, sono stati concessi in prestito e dunque sono presenti accanto ai disegni e ai dipinti di Boccioni.
Se, com’è stato osservato, le opere di Boccioni provenienti dalla collezione Chiattone, oggi di proprietà della Città, sono particolarmente significative del periodo nel quale si pongono i presupposti della pittura futurista, i disegni e le incisioni di Cosenza non lo sono di meno, essendo, in alcuni casi, preparatori di essi.
Sotto la spinta integrativa successiva alle singole mostre dedicate ai disegni e alle incisioni della Galleria Nazionale di Cosenza – già realizzate rispettivamente in quella città nel 2003 e a Rende nel 2008 – e a quella dedicata alla donazione Chiattone a Lugano nel 2006, l’odierna ricerca ha consentito di accostare i due nuclei davvero preziosi, per seguire i passi di Boccioni nei difficili anni della sua “gavetta” presso lo stabilimento dei Chiattone a Milano tra il 1907 e il 1909 con altre interessanti opere che dilatano l’osservazione sulla pittura prefuturista dell’artista, fornendo più elementi di riflessione per la sua valutazione. Questo contributo scientifico, che rende possibile vedere nuovamente le opere di Boccioni a Lugano in un momento in cui la sua produzione maggiore, soprattutto di conio futurista, è osservabile a Parigi, Roma e Milano, pone il Museo d’Arte, quale naturale sede interlocutrice, tra le altre mete di un viaggio conoscitivo, soprattutto per le nuove generazioni, pieno di promesse e di verifiche.
La collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria e con il Museo d’Arte dell’Otto e Novecento della cittadina di Rende segna anche l’intenzione del Polo Culturale di aprirsi verso soggetti culturali non solo limitrofi, ma anche più lontani, purché recanti opportunità di scambio culturale e occasioni di diffusione reciproca dell’azione promotrice delle arti e dell’estetica del XX secolo.
L’itineranza di questa mostra prelude ad altri futuri episodi e rapporti operosi nell’intento di valorizzare le collezioni civiche e l’attività scientifica che da esse può derivare.

Bruno Corà
Direttore del Museo d’Arte
Coordinatore del Polo Culturale
Città di Lugano


 

“Cerco, cerco, cerco, e non trovo. Troverò?”
Boccioni prefuturista
Cristina Sonderegger

(estratti del saggio in catalogo)

Il 14 marzo 1907, a Padova, dove risiede da circa quattro mesi dopo il suo rientro da Parigi, Umberto Boccioni annota nel proprio diario le seguenti riflessioni: “Sono stato in campagna per lavorare e non ho trovato nulla. Le solite linee mi stancano, mi nauseano sono stufo di campi e di casette. E pensare che appena arrivato a Padova ne ero entusiasta e speravo.
Bisogna che mi confessi che cerco, cerco, cerco, e non trovo. Troverò? Ieri ero stanco della gran città, oggi la desidero ardentemente. Domani cosa vorrò? Sento che voglio dipingere il nuovo, il frutto del nostro tempo industriale. Sono nauseato di vecchi muri, di vecchi palazzi, di vecchi motivi di reminescenze: voglio avere sott’occhio la vita di oggi. I campi, la quiete, le casette, il bosco, i visi rossi e forti, le membra dei lavoratori, i cavalli stanchi, ecc. tutto questo emporio di sentimentalismo moderno mi hanno stancato. Anzi, tutta l’arte moderna mi pare vecchia. Voglio del nuovo, dell’espressivo, del formidabile! Vorrei cancellare tutti i valori che conoscevo che conosco e che sto perdendo di vista, per rifare, ricostruire su nuove basi! Tutto il passato meravigliosamente grande, m’opprime io voglio del nuovo! E mi mancano gli elementi per concepire a che punto si è, e di cosa si ha bisogno.
Con che cosa far questo? col colore? o col disegno? con la pittura? con tendenze veriste che non mi soddisfano più, con tendenze simboliste che mi piacciono in pochi e che non ho mai tentato? Con un idealismo che mi attrae e che non so concretare?
Mi sembra che oggi mentre l’analisi scientifica ci fa vedere meravigliosamente l’universo, l’arte debba farsi interprete del risorgere poderoso, fatale d’un nuovo idealismo positivo. Mi sembra che l’arte e gli artisti siano oggi in conflitto con la scienza… C’è un malinteso. È vero questo che dico o mi sbaglio? È una verità che se fantasticamente potessi andare in luogo affatto nuovo dopo un lungo studio farei cose nuove.
Ora io mi sento frutto del mio tempo e mi sembra che qui a Padova tutto sia vecchio. Questa sensazione la allargo a tutta l’Italia, quasi, meno un po’ dell’alta e ne tiro la conclusione che si vive fuori d’ambiente. L’epoca nostra febbrile fa vecchio e in disuso quello che è stato fatto ieri. Cosa può inspirare se non della semplice tecnica un ambiente che non vive d’oggi? In Italia mi sembra tutto in disuso: un enorme museo per le cose d’arte, un’enorme bottega da rigattiere per quelle d’uso.
Le vie, le linee, le persone, i sentimenti sentono di ieri con l’aggravante dell’odore indefinibile dell’oggi. Noi viviamo in un sogno storico. Questa è la delizia dei forestieri che vengono giustamente a riposarsi, ma fa fremere me al pensiero che gli storici del secolo XX non parleranno di Italia”.
Fuori dal tempo e dalla storia, tenuto ai margini del “nuovo, dell’espressivo, del formidabile”, costretto tra il disincanto per una gloriosa, quanto ingombrante e inservibile, eredità artistica e l’esigenza di un “nuovo idealismo positivo”, che tuttavia ancora sfugge nelle forme e nelle tecniche: così Boccioni si sente in quella primavera del 1907 a Padova, dove tutto, a immagine dell’intera Penisola, sa di “ieri con l’aggravante dell’odore indefinibile dell’oggi”. Ma proprio la disillusione nei confronti di una cultura che sente come periferica, convenzionale e superata, la lucida e spregiudicata riflessione sul proprio lavoro, la fermezza e lo slancio verso il nuovo restituiscono l’immagine di un intellettuale pienamente iscritto nella cultura più avanzata del suo tempo, contiguo all’esperienza vociana e autentico precursore del futurismo. Tale è l’importanza delle riflessioni di quella primavera, che non a caso saranno in parte riprese da Filippo Tommaso Marinetti nell’Opera completa a lui dedicata: esse rivelano le difficoltà che Boccioni incontra nella sua ostinata ricerca di una sintesi artistica “del nostro tempo industriale”, difficoltà che si risolveranno più tardi, a poco meno di due anni di distanza, dopo che su “Le Figaro” del 20 febbraio 1909, pubblicando il manifesto, Marinetti darà avvio alla ricca e concitata stagione del futurismo. E le parole di Boccioni – per questo si è voluto riportarle integralmente [...] – forniscono la più eloquente chiave di lettura dell’insieme delle opere presentate in questa mostra. Negli scritti del 1907-1908, anni a cui appartengono la maggior parte degli oli, dei disegni e delle incisioni presi in considerazione, a più riprese Boccioni dà libero sfogo ai propri dubbi: dubbi che puntualmente si rispecchiano nella variegata e altalenante produzione di anni dedicati alla ricerca e alla sperimentazione. Così, se per un verso tenta di emanciparsi dall’insegnamento del suo primo importante maestro, Giacomo Balla, che a Roma lo introduce alla pittura divisionista e non solo, dall’altro cerca il confronto con l’opera di Giovanni Segantini, è affascinato dal segno grafico di Aubrey Beardsley, conosce e frequenta Gaetano Previati, che sarà la seconda importante figura nel suo percorso artistico. Di tutto ciò Boccioni parla nei propri scritti, fornendo un prezioso contributo alla lettura delle opere realizzate nei fondamentali anni che precedono quella che possiamo senz’altro definire la liberazione futurista. Se Boccioni non si scopre certo artista in quel momento ed è indiscutibile la grande qualità della produzione del primo decennio del Novecento, è nella pittura, e forse soprattutto nella scultura del quinquennio successivo, a cui dedica anche i propri testi teorici, che egli riesce a coniugare le proprie idee con un linguaggio espressivo originale, dando sfogo a tutta l’“energia necessaria continua ininterrotta della testa guidatrice della mano” e lasciandosi finalmente alle spalle quella “netta sensazione che la mia mano non ubbidisce la mia mente” che lo tormentava ancora qualche anno prima. Le pagine che seguono intendono proporre un breve percorso attraverso l’opera di Umberto Boccioni prendendo spunto dai dipinti a olio e dalle opere su carta riuniti in mostra e in catalogo, dove per la prima volta sono stati messi in dialogo il fondo appartenente alla collezione della Città di Lugano e le opere provenienti dalla vendita della Winston Malbin Collection, svoltasi a Lugano nel 1991 e nel 1992, successivamente acquistate dallo Stato italiano, e oggi conservate presso la Galleria Nazionale di Cosenza. A queste è affiancata una scelta di opere provenienti da altri musei e collezioni private svizzere e italiane, pertinenti alle scelte del nucleo ticinese e di quello cosentino: se l’arco cronologico spazia dal 1903 al 1915 – ovvero dal divisionismo d’impronta naturalistica, attraverso il simbolismo e il futurismo, fino alle ultime prove d’impostazione cézanniana – le opere selezionate sono per la maggior parte riconducibili al periodo prefuturista di Boccioni, e in particolare al 1907-1908, quando, accanto all’attività più propriamente pittorica, l’artista si dedica anche all’incisione, all’illustrazione e alla grafica pubblicitaria.


 

Boccioni, gli scritti giovanili
Maurizio Calvesi

(estratti del saggio in catalogo)

(…) Umberto, che nel Meridione fa le prove per affermarsi nell’agone letterario, aspira a una carriera di giornalista e di scrittore, e diventa pittore solo in seguito, ma neanche subito dopo l’arrivo a Roma. In una lettera spedita alla madre il 9 marzo 1901, egli torna, sia pure in tono scherzoso, a vantare le proprie qualità di scrittore, poeta e “filosofo ateo-scettico-materialista, nuovo fondatore del sistema filosofico dei Cazzacci”. Ora sta scrivendo la Carcereide, “poema epi-eroico-erotico-tragi-comico” in terzine. In una lunghissima lettera indirizzata agli amici di Catania, e databile all’estate-autunno del 1901 (riportata nelle parti essenziali anche da Agnese), racconta dei suoi amori e spiega come si guadagna da vivere, al servizio del deputato catanese Beniamino Pandolfi Guttadauro e anche dell’onorevole Francesco Paternostro, deputato di Corleone, che introduce Boccioni al “Fanfulla”, periodico umoristico.
Proprio al “Fanfulla” aggiunge poi che “scopersero in me una grande tendenza alla caricatura perciò mi presentarono a un pittore e adesso sotto la guida di Stolz, un mio amico ammogliato con figli, io studio la figura. Mi sono comprato i pastelli, i pennelli, la china e quella stecca con una palla per posare il braccio e adesso mi farò il cavalletto. Vedi che nuoto in piena vita artistica. Dopo questa visita a Stolz devo fare qualche altra cosa. Poi vorrei cominciare il romanzo di me e Armida. Poi devo scrivere tutta una strenna che comparirà per Natale con disegni di Stolz. Questi giorni inoltre ho mandato un articolo di critica alla ‘Gazzetta di Catania’. Non so se lo ha pubblicato ancora... Scriverò anche a qualche altro giornale”. (…)

(…) Gino Severini che, nel suo Tutta la vita di un pittore, racconta di aver conosciuto Boccioni a Roma una sera d’estate; il giorno dopo fecero un bagno nell’Aniene, “credo nel 1900”. Severini afferma anche che Boccioni al tempo di questo loro incontro “non aveva mai toccato né pennelli né colori”, ma già disegnava sia pure nel modo più sprovveduto. Si trattò forse dell’estate del 1901, subito prima della lettera in cui Boccioni racconta il suo approccio agli strumenti del mestiere? “Il giovane Umberto – leggiamo ancora nel testo di Severini – viveva col padre in casa di uno zio e mi disse pure che il padre per secondarlo nel suo desiderio di darsi all’arte, lo mandava a prendere lezioni da uno di quei cartellonisti che, intorno al 1900, imbrattavano i muri delle città. Questo pseudopittore gli faceva copiare i suoi orribili cartelloni, e sono questi disegni, uno più brutto dell’altro, che mi mostrò”. (…)

(…) Dei componimenti poetici, Fra i morti è quello che con maggiore virulenza riproduce il clima ferale che assediava la già pessimistica fantasia del giovane Boccioni: descrive una ridda di scheletri che si scatena sui sepolcri di un cimitero al calare della sera. Riporto questi versi, di un lugubre “dantesco”, che aprono uno spiraglio sulle pieghe più amare e pessimistiche dell’immaginazione boccioniana, evidentemente presenti fin dalla prima giovinezza. L’artista, come noto, era soggetto a stati depressivi interrotti da esplosivi momenti di allegria e vitalità:

Quando la sera le nere ali stende
e spenta è ogni face,
Quando l’oscurità già l’aere fende
e tutto intorno è pace
Quando finito è in ciel il lieto canto
degli augelli festanti,
Sulla tomba feral del camposanto
tetri s’alzano i pianti.
Son pianti flebili orridi schianti
urli, bestemmie e grida,
E fischi di rabbia odi e odi pianti
tra voci di sfida.
Sulle tombe danzar vedi gli spetri
avvolti in bianca vesta
E de’ fantasmi vedi i volti tetri
l’ischeletrita testa.
Una ridda infernal s’alza e s’aggira
e ognun su l’un compare,
Tra un fetido vapor che come spira
s’alza su e giù e scompare.
A un arcano segnal cessa il lamento
e ognun alla sua fossa
Brancolando s’en va furioso e lento
mordendo fino a l’ossa
Quella carne sanguigna e imputridita
che le pene d’inferno
Gli han serbata a gridar per sempre aita
e maledir l’Eterno.

Cos’è il mondo è un sonetto che traccia, ma con piglio vivace, uno sconfortante ritratto del mondo in cui viviamo:

Immagina un immenso baraccone,
variato di quadretti e di figure,
il diavolo sta dentro e tien le cure
d’un caos di animali e di persone.
Infra le cose più sconclusionate,
vedrai nascere, sorgere e morire,
vedrai molte, ma molte pagliacciate
fuse a slanci d’eroi pieni d’ardire.
Vedrai amori, turpi tradimenti,
anime vili, ipocrite e mendaci,
oper nefande, di tigri e di dementi.
Unisci tutto questo e avrai lo sfondo
d’una tela imbrattata di lordure,
che volgarmente vien chiamato mondo.

A parte il limitato, o quasi inesistente valore letterario (…) si tratta di documenti preziosi non solo per la commovente testimonianza che portano sugli amori e le aspirazioni del futuro pittore nei suoi anni catanesi, ma anche per l’indicazione che alcuni di essi contengono, come abbiamo cercato di dire, in ordine a una visione a tratti fosca dell’esistenza, le cui tracce continueranno ad affiorare nelle lettere e nei diari dell’artista. Severini racconta degli attacchi di disperazione di Boccioni, dicendo che in questa disperazione c’era “molta letteratura”; i testi ritrovati sembrano dargli ragione, ma al tempo stesso testimoniano delle radici che questo sentimento disperato, benché pronto a capovolgersi nella più sonora allegria, affondava nella natura stessa dell’uomo, spesso in bilico tra depressione ed esaltazione. (…)

(…) Il recente libro Una parentesi luminosa di Marella Caracciolo Chia, che ha portato a conoscenza la vicenda amorosa di Umberto Boccioni e Vittoria Colonna negli ultimi mesi di vita del pittore, ha fatto luce sul dramma della sua morte, descritta da Emilio Piccoli in una lettera a Vittoria, morte che si credeva dovuta a un eccesso di vitalità (aver sfidato un cavallo particolarmente riottoso e ribelle), cioè alla più vitale tra le alternative del suo carattere. In realtà fu il contrario. Umberto rimase vittima di una delle sue cadute depressive, provocata da un’interruzione, dopo il 4 agosto, della sua corrispondenza con l’amata, interruzione peraltro (ma Umberto non lo seppe) non voluta da lei. “Gentile Amica – scrive Umberto a Vittoria il 16 agosto, ovvero alla vigilia del decesso – ho atteso anche oggi la posta e non ho ricevuto nulla. Non posso arrivare a capire! Siete ammalata? Vi annoia rispondere? Vi hanno annoiato le mie? Cosa è accaduto? Non comprendo! Vivo in un orgasmo che non mi dà pace. Non ho nemmeno la forza di stare a cavallo [...]”. Qualche ora dopo, per cercare di distrarsi, Umberto torna, da principiante quale era e con quello sfinimento addosso, a esercitasi nell’equitazione, con un cavallo peraltro, in realtà, assai mansueto e accompagnato dal suo sergente. Sono le diciannove e trenta. Imprevedibilmente, spaventato da qualcosa, il cavallo scarta e si lancia al galoppo. Boccioni tenta di aggrapparsi al collo dell’animale ma non trova il riflesso e le forze sufficienti. Cade con la testa in avanti. Portato all’ospedale di Verona “il ferito viene consegnato al medico di guardia, il quale capisce subito che il caso è disperato. Due ore dopo arriva il tenente di Boccioni, che gli fa fare un’iniezione di caffeina. Prova a parlargli. Chiede se è caduto da cavallo, racconta ancora Emilio Piccoli, al che Umberto rispose di no, con un cenno del capo e con la voce. Allora il tenente gli chiese: ‘Ma Boccioni, mi riconosci?’. Ed egli rispose: ‘Sì, Lei è il tenente mio’. ‘Ma dunque – insisté il tenente – sei caduto da cavallo?’ E qui il morente ripeté ‘no’. E fu la sua ultima parola”. Guardare ora il manoscritto di Pene dell’anima posseduto da Nicotra, lascia turbati. Esso termina con la parola FINE e sotto vi è disegnato (sono le sue più antiche prove grafiche) un cavallo che scalcia dopo aver disarcionato il proprio cavaliere, che è rotolato a terra. “Fine”. Qualche pagina avanti, un altro schizzo di Boccioni riproduce Mario Nicotra nelle vesti di guerriero medievale con la spada in mano, e la scritta: “Al Glorioso Capitano Mario Nicotra morto ascendendo la scala della Gloria”. Segue uno scherzoso: “Pace all’animaccia sua”. Nicotra morì in battaglia sul monte San Michele, con il grado di capitano di fanteria, pochi giorni prima dell’amico Umberto. Gli fu attribuita una medaglia d’argento al valore.


 

Visioni simultanee
Tonino Sicoli

(estratti dal saggio in catalogo)

Boccioni, due anime. Due caratteri in una complessa personalità. Da un lato il malinconico poeta di una condizione intrisa di cultura simbolista, dall’altro il sanguigno protagonista di una stagione di rinnovamento culminata nel futurismo. Si intreccia, così, la figura di uno dei più importanti artisti del Novecento, emblematico personaggio di una fase di passaggio dal XIX secolo che si chiude al XX che inizia. Quasi inconsapevolmente Umberto Boccioni si porta dietro tutte le contraddizioni di un’età convulsa, di un tempo attraversato da profondi processi di cambiamento, la crisi di un’epoca che diventa la sua personalissima crisi. La sua sensibile identità oscilla fra posizioni intellettuali ed esistenziali faticose, vissute con estrema partecipazione, fra linee poetiche che si contraddicono in un periodo storico ancora indefinito. Vive in sé umori contrastanti e amori travagliati, si districa in un ginepraio di idee e culture contrapposte, fra concezioni divergenti. Soggetto affascinante, proprio per questa sua modernità umana prima ancora che intellettuale, artista nella vita e nelle arti, epigono di una generazione di disperati e maledetti (Leopardi, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Modigliani) ma iniziatore di una progenie di sostenitori del progresso e di una rifondazione – futurista appunto – dell’universo.
Boccioni si muove all’interno di coppie di categorie opposte. Il dualismo si manifesta intanto in un diverso atteggiamento fra l’uomo pubblico e quello privato. Nei proclami adotta il linguaggio aggressivo e il tono arrogante del predicatore settario, nei diari e nelle lettere assume espressioni più pacate e accenti introspettivi, talvolta lamentosi. Nei manifesti enuncia provocatoriamente i dettami della nuova poetica disprezzando il gusto infrollito dei passatisti e la pesante vuotaggine degli accademici, mentre nei taccuini si lascia andare a confessioni intime e a briciole di banalità quotidiana. Anche l’opera risente di questa doppia identità. Lo si avverte nei dipinti realizzati fra il 1909 e il 1910, ai prodromi dell’avventura futurista, e in quelli del 1916, quando, poco prima della sua morte, l’artista già preconizza un superamento del futurismo. C’è una certa contiguità fra Boccioni simbolista-divisionista e Boccioni futurista, non solo temporale, ma anche sincronica. Anche se la cronologia giustifica, comunque, la naturale evoluzione stilistica, appare evidente in una valutazione complessiva dell’opera boccioniana, l’esistenza di due momenti collegati ma distinti. La forza d’energia delle composizioni pienamente futuriste – La città sale, La risata, Visioni simultanee – è altra cosa dal più delicato gusto delle opere prefuturiste, che perdura, tuttavia, fino al 1910, a futurismo iniziato. In queste i colori crepitanti alla maniera divisionista sono, comunque, aderenti alla tavolozza della natura, la scomposizione a punti e tratti cromatici interessa l’effetto texture della superficie ma non investe la struttura dell’opera, che resta quella del paesaggio più o meno tradizionale, come ben si può vedere in quasi tutta la collezione Chiattone di Lugano. (…)

(…) Tornando a Boccioni può cogliersi ancora il rapporto dialettico esistente fra la sua pittura esuberante e la sua scultura vigorosa da un lato e i suoi sobri disegni e le delicate incisioni dall’altro. Alla stesura densa delle pennellate piene di energia si oppongono i tratti sottili di un disegnare leggero, all’espressione forte fa fronte la suggestione lieve. L’opera compiuta si palesa nella sua sicurezza, l’appunto visivo sottintende la sua precarietà. La pittura appartiene a una dimensione pubblica dell’arte, mentre il disegno ha a che fare più col privato. Non a caso la produzione grafica negli artisti è sempre meno nota e – come nel caso dei disegni bocconiani della collezione della Galleria Nazionale di Cosenza – getta spesso un’utile luce interpretativa sulla cosiddetta produzione “maggiore”. Alcuni di questi disegni sono studi preparatori di dipinti realizzati, altri sono studi di ricerca, rispetto ai quali il collegamento a realizzazioni pittoriche non sussiste o comunque risulta indiretto. (…)

(…) Sono piuttosto evidenti i collegamenti con altre figure femminili dello stesso Boccioni, compresi alcuni ritratti della madre eseguiti nello stesso anno e, soprattutto, con Maestra di scena, in cui ripropone la stessa posa con la figura poggiata sul bracciolo. I vari bozzetti di Donna che legge elaborano la figura femminile del delicato dipinto Romanzo di una cucitrice del 1908. Si tratta di quattro disegni a matita in cui l’artista, oltre alla postura generale della figura femminile, saggia la posizione delle gambe affusolate e compostamente accavallate sotto l’ampia gonna di cui studia il drappeggio posteriore. Scrive Boccioni nei suoi diari il 28 maggio 1908: “la figura la vo cambiando ancora tornando verso quella che a me sembra realtà. Perché questo? Forse per la vicinanza d’una donna giovane per la quale nutro affetto?”. In questi bozzetti della modella Ines, l’artista raggiunge per rapidità del tratto risultati di rigorosa linearità e assoluta sintesi formale, efficaci per raffinatezza e senza i diversivi effetti della tecnica divisionista che indugia su una resa intimista. (…)

(…) In Studio per Contadini al lavoro, invece, viene impostato l’insieme dei colori, che sono annotati, addirittura, oltre che con l’indicazione delle tinte, con l’effetto da ottenere: freddo, caldo, terreno, noce rosso massimo scuro, bluastro eccetera. Il risultato è nel piccolo ma intenso dipinto del 1908, Contadini al lavoro, della collezione Chiattone, che rappresenta una felice rappresentazione dello spazio attraverso l’impiego dei soli colori, assurti così al ruolo di gradienti di profondità. In altri casi Boccioni studia dei particolari poi inseriti in opere più articolate come Campagna lombarda, sempre della collezione luganese; il pergolato di sinistra, l’albero in primo piano e la pianta alla sua destra sono provati in tre disegni di Cosenza in un approccio meditato alla composizione finale dell’opera, che risulta così una bella sintesi di elementi formali e di materia pittorica. (…)

(…) Boccioni, dunque, eterno artista in crisi, genio contraddittorio di un’avanguardia che brucia come un fuoco di paglia, ansioso interprete di una condizione tutta moderna, non univoca, fatta di andamenti irregolari, con tante entrate e con tante uscite. Un acceso teorizzatore del futuro prigioniero del tempo presente, un intellettuale aperto in balia della sua sensibilità umana. Scrive il 21 dicembre 1907: “avere la forza di vivere senza amici soli col proprio ideale: ecco la libertà vantata […]. L’impossibilità, la serenità, la contemplazione in alto nel silenzio, nel gelo forse (beata solitudo - sola beatitudo) e giù le lotte le fatiche brutali, l’amore, la guerra, la morte”. (…)

(…) Nella formazione della sua personalità c’è il rapporto particolarissimo che Boccioni ha con la madre Cecilia Forlani. Per lui la madre è l’origine di tutto: mater sta anche per materia; e si intitola appunto Materia il grande ritratto futurista della madre, appartenente alla Collezione Mattioli e oggi al Guggenheim di Venezia. La materia è la matrice originaria della pittura: plastica, dinamica, cangiante e sorprendente. A questo simbolismo forte si rifanno molte altre opere di Boccioni dedicate alla madre, che viene ritratta in tante versioni e in vari periodi. L’ombra della madre grava su tutta la sua vita, compresa quella sentimentale. L’amore stesso è una forza vitale, una spinta alla creatività, al bello, all’arte. Boccioni non è insensibile al fascino femminile, ai piaceri degli incontri galanti, alla seduzione muliebre. La sua modella prediletta, Ines, ritratta in tanti dipinti, è anche la sua amante a partire dal periodo padovano (1904). È lei la fanciulla del primo bacio, come scrive lo stesso Boccioni nei suoi diari. Non si sa quanto dura il loro amore (forse fino al 1912), ma è sicuramente un rapporto travagliato che si sovrappone, a un certo punto, al rapporto sentimentale con la scrittrice Margherita Grassini Sarfatti. Il nuovo amore lo coinvolge sia fisicamente che intellettualmente. L’artista incontra la Sarfatti nel 1909, molti anni prima che la stessa diventi l’amante di Benito Mussolini! I due si conoscono al palazzo della Permanente di Milano, lo stesso dove la “vergine rossa” nell’aprile 1926 organizzerà la storica “Prima mostra del Novecento italiano”, il movimento antagonista del futurismo. (…)

(…) L’amore, tuttavia, nonostante i successi con le donne, lascia Boccioni profondamente disilluso. E soprattutto con un grande senso di solitudine. L’artista cade spesso in crisi depressive, anche a causa delle incomprensioni verso le sue opere e dell’insoddisfazione per il proprio lavoro. Poco alla volta anche l’amore per la vita lascia il posto alla pulsione di morte. Tormentato scrive nel 1912 all’amico Gino Severini: “È terribile… io lotto con la scultura! Lavoro, lavoro, lavoro e non so cosa do. È interno? È esterno? È sensazionale? È delirio? […] Tremo! Intanto mi calmo… Se dovessi continuare su questo tono non potrei che uccidermi. Certo la vita va diventandomi un tormento insopportabile”. (…)

(…) Boccioni appartiene a quella schiera di artisti “totali”, che vivono pienamente l’esperienza della vita dell’arte senza sconti né scorciatoie, assumendone pienamente le contraddizioni e pagandone un prezzo altissimo. Per lui la vita stessa è futuristicamente compenetrazione di “visioni simultanee”. “Come è identico il movimento in tutti campi del pensiero!”. (…)


 

Presentazione
La dinamo futurista.
Primo Conti - Disegni per Harriet Quien, “La donna che venne dal mare”,
1912-1925
Bruno Corà

Era del tutto prevedibile che l’anno ormai in corso avrebbe visto l’attuazione contemporanea, se non proprio simultanea, di numerose mostre ed eventi che, a vario titolo, avrebbero celebrato l’anniversario della nascita ufficiale del Futurismo che, com’è noto, si fa risalire alla pubblicazione del Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti sulla prima pagina del parigino “Le Figaro” il 20 febbraio 1909.
In tale quadro di ricorrenza, sono già state inaugurate le significative mostre “Le Futurisme à Paris” presso il Centre Pompidou, che chiude i battenti in questi giorni per riaprire a Roma e poi a Londra in un’itineranza che si concluderà in autunno, e la più recente mostra “FUTURISMO 100” presso il MART di Rovereto. Ma nel corso delle prossime settimane e nei mesi successivi sono attese altre importanti mostre dedicate al Futurismo, a Palazzo Reale a Milano e in altre località e musei europei. Non sono mancate mostre, anche di un certo rilievo, in gallerie private italiane e altre se ne attendono, andando a comporre un quadro di avvenimenti che già da solo appare eloquente per sottolineare l’importanza di quel movimento artistico d’avanguardia, la cui eco non sembra essersi esaurita, sia nell’immaginario popolare, sia tra i cultori d’arte, i collezionisti, gli studiosi, il pubblico appassionato e aperto alle esperienze estetiche maggiori del secolo XX.
All’interno di questo vivace e composito tessuto propositivo, come pure attorno ad esso, non sono mancate le polemiche, le prese di posizione, talvolta anche accese, mirate a contenere e proporzionare la qualità degli eventi o la discussa dirompenza che il Futurismo obiettivamente ha suscitato, almeno negli anni in cui si manifestava, e poi successivamente, non smettendo di far parlare di sé, sia l’opinione pubblica sia quella critica e degli addetti ai lavori.
Entro questa temperie, s’inserisce la mostra dedicata e curata da Daniela Palazzoli a un nucleo di disegni pressoché inediti di Primo Conti, pittore fiorentino, protagonista e testimone degli anni ruggenti del Futurismo, punto di riferimento, ancorché giovanissimo, per Umberto Boccioni, ma anche per altri pittori, scrittori e poeti attivi negli ambienti dove crebbero e si diffusero, come a Milano e Roma, le parole d’ordine, i proclami, le riviste, le opere e le ‘serate’ dell’incendiario gruppo capeggiato da Marinetti, in pochi anni divenuto una vera ‘società artistica’ dal forte impatto provocatorio e sprovincializzante.
La longevità di Primo Conti e la sua inquietudine culturale hanno fatto sì che nel corso degli anni Settanta io lo potessi incontrare, in più circostanze, durante lo svolgimento di avvenimenti espositivi tenutisi a Firenze, ma anche in ambienti a lui più familiari. La frequentazione infatti delle sue due figlie, Maria Gloria e Maria Novella, entrambe impegnate nell’attività artistica con diversi interessi, mi permise in quegli anni di scambiare con lui alcune brevi conversazioni, rivelatrici della precoce e duratura tensione artistica che lo aveva accompagnato sino a tarda età.
A Firenze, a lungo egli aveva contribuito a rendere dinamica la vita culturale poiché, come è stato opportunamente sottolineato dal curatore della mostra, il connubio arte-vita aveva costituito per lui la più efficace garanzia di riuscita del credo e della prassi futurista.
Se si legge il libro autobiografico di Conti La gola del merlo (1983), si comprende appieno la sua relazione artistica con Boccioni e in generale il lievito che Conti stesso rappresentò in una città come Firenze, già attraversata dal vento del Futurismo e dai suoi protagonisti.
Per queste ragioni e per la singolarità della proposta critica ho ritenuto assai felice la circostanza di poter coniugare questo evento con quello della mostra da me ideata, che rende omaggio a Umberto Boccioni nel centenario del Futurismo; in tal modo promuovendo un’occasione e un’offerta culturale originale che non mancherà di fornire dati interessanti provenienti dalle opere in gran parte pre-futuriste dei due artisti, nonché da interessanti documenti, affiancati per la circostanza, non privi di preziosi spunti per approfondire una stagione dell’arte della maggiore avanguardia italiana tuttora influente.

Bruno Corà
Direttore del Museo d’Arte
Coordinatore del Polo Culturale
Città di Lugano


 

“… E poi l’arte incontrò la vita”
Primo Conti e i disegni per Harriet Quien 1912-1925
Daniela Palazzoli

(estratti del saggio in catalogo)

(…) Il 20 febbraio 1909, data dell’uscita del primo manifesto del futurismo su “Le Figaro” di Parigi, Primo Conti era troppo giovane per firmarlo e di questo sempre si crucciò moltissimo. Tuttavia leggendo i resoconti di allora, e le sue memorie autobiografiche elaborate assieme a Gabriel Cacho Millet, sembra che l’euforia e le diatribe appassionate che circolavano anche a Firenze intorno alle idee nuove, abbiano contribuito a focalizzare i suoi entusiasmi giovanili sull’arte, distraendolo da passatempi considerati più consoni, e sicuramente più condivisi dai ragazzi della sua età. A favorire la sua precocissima concentrazione sia sulla pittura che sulla poesia e sulla musica - già a undici anni cominciò a realizzare delle prove creative interessanti - contribuirono sia l’atmosfera di coinvolgente proselitismo che circondava le manifestazioni futuriste che la caratura intellettuale ed il coraggio umano di molti dei protagonisti di questi incontri, che non esitavano a mettersi in gioco in un clima di accesa bagarre da stadio. Penso in particolare alla Grande Serata Futurista del 12 dicembre 1913 al Teatro Verdi. Primo Conti, sgattaiolando fuori di casa, vi si recò di nascosto, assieme ad Ottone Rosai, che aveva qualche anno e più libertà d’azione di lui. I due nel buio vedono affollarsi all’ingresso un assembramento di persone con in braccio misteriosi fagotti e pacchetti da cui spuntavano ortaggi e oggetti vari: scoprirà poi che questa è quella che, in gergo, oggi, sarebbe la classica “curva” da stadio, i tifosi scatenati e senza remore di una delle due parti in gioco. Il teatro è strapieno. Fra i fischi e il baccano generale i futuristi si presentano calmi ed elegantissimi - la parte dei bohémiens la facevano i passatisti, mentre il “futuro” indossava rigorosi abiti scuri -. Dal proscenio fioccano sulla sala gli insulti di Papini, mentre un impassibile Umberto Boccioni esordisce dicendo: “M’accorgo che in questo teatro vi sono più carogne che intelligenze! Vi parlerò del dinamismo plastico”. Cosa si vuole di più? C’era tutto il necessario per conquistare la mente e il cuore di un ragazzo: la trasgressione della fuga notturna, l’atmosfera elettrizzante, lo scontro attraverso cui mettere alla prova e dare forma alle proprie capacità e al proprio coraggio, e per finire la contrapposizione di idee e di valori “in stile guelfi e ghibellini”, impersonata da eroi - intellettuali ma anche prestanti, decisi, e senza peli sulla lingua - che si battevano con stile per le proprie idee. Conti diventa una presenza costante e rispettata della vita culturale che, fra i numerosi stimoli, poteva contare su delle personalità capaci di interpretare l’atmosfera dell’epoca, e di rendere Firenze uno dei crocevia di passaggio dei grandi protagonisti della cultura di punta. Fra questi ricordiamo Picasso che si accorge per primo di condividere con Conti gioie e dolori di una devozione precoce, e di successo, alle arti. Picasso - che aveva cominciato a recarsi a Roma al seguito dei Ballets Russes di Diaghilev - passa da Firenze nel 1917 in occasione di uno spettacolo dei balletti al teatro Politeama. Alberto Magnelli, che lo accompagnava, va a cercare Conti nel foyer del teatro: Picasso aveva visto un suo quadro e voleva parlargli. E le sue prime domande sono appunto sull’età, e su quando ha cominciato a dipingere. E quando Conti risponde: “a undici anni”, Picasso scatta: “Avete sentito? Anche lui è un mostro”. Finalmente aveva trovato uno come lui! Un “mostro” che, come lui, sapeva cosa significava sopportare il peso dello stupore, e il senso di estraneità degli altri di fronte alla loro diversità. (…)


(…) La ricerca di crescita di Conti si concentra essenzialmente sulle arti - arti visive, ma anche musica, poesia e letteratura, con grande vastità di informazione e di visione degli esiti europei più interessanti e positivi. Lo testimoniano i materiali da lui raccolti, e in seguito conservati nella Fondazione dedicata al suo nome sulle avanguardie storiche. (…)

(…) Temperamento riflessivo, egli amava esplorare e conoscere, ma anche riflettere e approfondire meditando pro e contro, in modo da avere una visione chiara del progresso e della effettiva portata delle proprie ed altrui azioni. Nelle arti visive il suo è un processo di costruzione lento e meditato che mira a fare avanzare la costruzione del proprio linguaggio creativo attraverso una spola, un dialogo ed un confronto fra la realtà che lo circondava, i vari modelli che incontrava lungo il suo percorso, e la propria individualità che tendeva a ristrutturarsi costantemente rispetto a un ideale di perfezione. (…)

(…) Lo strumento ed il linguaggio principe della sua esplorazione - il diagramma della sua mente che pensa, e che lungo il percorso creativo compone le situazioni e le forme donando loro senso ed emozioni - è il disegno. La sua matita è il prolungamento del suo occhio e della sua mente: fissa ed esplora con calma e profondità i singoli aspetti e l’insieme di situazioni ed oggetti, concentrandosi su un campo visivo che inquadra al massimo la figura intera e, molto più raramente, un gruppo di persone o una scena afferrabili, nella realtà, con un solo sguardo fisso. I quadri di solito articolano e coordinano queste scene, facendo perno su un tema caratterizzato da una figura centrale, intorno a cui si compongono diverse situazioni coerenti col soggetto, che erano già state studiate, elaborate e sintetizzate nei disegni. Anche se il disegno nel complesso è un vero bisturi capace di incidere in una realtà variegata e complessa, infatti, ogni singolo disegno è concepito e realizzato come un’opera autonoma che fissa e riassume le sue idee ed emozioni sul soggetto che l’artista sta esplorando. Attraverso le opere della collezione Quien, concentrate nel periodo fra il 1912 e il 1925, possiamo così seguire sia la maturazione del segno e del linguaggio che quella umana dell’artista.
Votato all’incontro con l’altro ma anche all’introspezione, Conti concepisce il tema dell’autoritratto sia come un soggetto d’elezione per conoscersi meglio, che come strumento per farsi riconoscere dagli altri. (…)

(…) Con l’Autoritratto allo specchio egli ci si offre mentre esplicita il suo metodo di lavoro: lo sguardo è impegnato nell’intensità della concentrazione e dello scandaglio ed è in presa diretta con la mano che impugna il suo strumento di lavoro, vigile nell’afferrare e fissare quanto osserva.
Sono diverse le figure femminili che entrano assai presto a fare parte del suo orizzonte figurativo. A parte la madre che ritorna spesso nella sua opera, egli trae i suoi soggetti sia in presa diretta dal vero che attraverso dei modelli in posa. È attratto dal tema della toilette dopo il bagno che agli inizi tratta in modo pudicamente realistico. Con l’avanzare delle sue ricerche in direzione del futurismo, studierà il corpo femminile anche con l’intento di mettere in risalto il gioco delle tensioni e delle contrapposizioni muscolari. (…)

(…) L’evento catalizzatore che nel tempo lo aiuta a trasformarsi da “futurista clandestino”, come egli si definiva, in un artefice che riesce a cogliere e a declinare l’essenza dinamica di un oggetto - integrandola sia con la struttura architettonico-compositiva del suo disegno che con il senso concettuale ed emotivo del soggetto - è l’incontro con Umberto Boccioni nel 1914. L’occasione dell’incontro con lo scultore è data dalla mostra che gli dedica la libreria Gonnelli di Firenze. Conti e l’amico Ugo Tommei sono elettrizzati dalla possibilità di allestirla tanto più che Conti ha anche l’opportunità di restaurare uno dei gessi dello scultore che, a causa della fragilità, si era rovinato. A gettare un seme duraturo, destinato a influenzare nel tempo la sua idea dell’arte, è l’incontro con Boccioni stesso avvenuto qualche giorno dopo l’inaugurazione. Boccioni arriva di primo mattino, ancora in abito da sera e calzato di scarpette da ballo, e chiede a Conti di accompagnarlo a visitare i Prigioni di Michelangelo. Nel corso della visita fa sentire a Conti l’affinità fra la lotta dei corpi messa in scena dai Prigioni per svincolarsi dalla materia bruta, e manifestarsi nella loro essenza di proiezione fisica di una entità spirituale, con l’intuizione delle linee-forza futuriste. (…) Conti si rende conto di avere partecipato ad una avventura di iniziazione “fuori misura per un ragazzo”. Tanto più che, accanto all’esperienza della lotta immane dei Prigioni per liberarsi dalle catene del corpo, vi è appena stata per lui anche quella delle sculture che Boccioni realizza con materiali fragili e deperibili come vetri, cuoio, latta, cartone e il gesso perché “l’opera d’arte per essere viva deve aver la stessa sorte dell’uomo e subire, come l’uomo, la malattia e la morte”. (…)

(…) Un aspetto importante della lezione futurista si vede anche in quei disegni - soprattutto di volti, come in ‘forma-luce’ - in cui è la luce a venire frantumata e riutilizzata secondo angoli di rifrazione e riflessione inediti che reinventano il volto, sostituendo alla descrizione una mimica dinamica e lirica.
Il tema delle profughe evoca la guerra che, nel frattempo, alcuni artisti vivevano già di persona, mentre altri, come Conti, dovevano ancora sperimentarla. (…)

(…) I disegni degli anni 1919 1920 rivelano suggestioni disparate. Da un lato egli è ancora memore della scomposizione futurista che applica in disegni come Uomo con la pipa e donna di stoppa contrapponendola alla staticità della posa. Le gambe e i busti si animano di giochi geometrici e di sventagliate dinamiche, mentre le figure se ne stanno tranquillamente sedute. Volto, il disegno che appare sulla copertina della monografia di Corrado Pavolini, La Pittura di Primo Conti, Edizioni del Centone, Firenze, 1919, associa con ironia la geometria del naso con la forma trapezioidale del ritaglio di carta su cui è disegnato. Compaiono anche disegni integrati in modo spesso grottesco e scanzonato con collage di carta da giornale. L’adozione dei portati della comunicazione della vita quotidiana, popolare e pubblica, sembra qui presentarsi come uno stimolo a trasgredire con pose disinibite e stilizzazioni del corpo in chiave ironica, antitetiche alla serietà e la concentrazione delle figure di un tempo. Si veda il Ritratto Femminile del `19, la Danzante nuda e la Figura femminile con stella - una immagine che potrebbe essere stata pensata in relazione al dipinto Eros del 1919 - che esibisce con stile da cabaret una stella rossa sul capo. (…)

(…) Nei suoi disegni, come Studio di deposizione e I pietosi, entrambi del 1923, allora, compaiono iconografie più classiche di natura religiosa, intese come modi di ricreare, illustrandole con spontaneità, storie religiose connesse col ciclo de Le Parabole. È a questo punto che - ancora alle prese con i dubbi e le inquietudini suscitati dalla speranze infrante di un’epoca e dall’avvento di soluzioni politiche assai distanti dai suoi ideali -, che non gli consentivano di trovare una via d’uscita e di imboccare strade nuove soddisfacenti egli conosce una donna destinata a svolgere un ruolo assai importante nella sua vita, e cioè quello di farlo maturare attraverso un amore destinato a finire in un modo drammatico. Nei quattro anni durante i quale si sviluppa, questo incontro amoroso gli offre la possibilità di rivedere i suoi ideali di aspirazione alla modernità alla luce di una donna amata, positiva, viva, reale, industriosa, presente nella vita quotidiana di ogni giorno. Essa costituisce un esempio di modernità realizzata nella vita, di gran lunga più lungimirante, cosmopolita e corredata di radici globali del più roseo dei sogni e delle opere reperibili nelle avanguardie. Harriet Quien, vivendo nella vita vera, assieme a lui, lo costringe - attraverso il continuo processo pensiero e azione postulato da Boccioni (questo sì) - a trasformare lentamente il suo modo di pensare e di agire.
Il balzo alla ribalta di Harriet - che voleva essere chiamata ‘Harry’ al maschile, “perché non è il sesso a definire l’identità delle persone” - attraverso questa collezione di disegni, può consentire ad esempio di rivedere e chiarire per confronto molti aspetti ancora irrisolti del futurismo - come il ruolo delle donne nel movimento, e nella vita - alla luce di un caso davvero contemporaneo ed attuale dei modi di evolvere della nostra società globale. (…)

(…) Non furono tanto le incomprensioni personali quanto quelle delle due famiglie a porre fine all’amore fra Primo Conti ed il suo primo grande amore giovanile Harriet Quien.
Nella lettera, conservata alla Fondazione Conti, con cui egli la saluta per l’ultima volta, Primo Conti dimostra di avere conquistato la maturità del rapporto di una continuità fra arte e vita che, assieme alla creazione e all’agire, contempla anche la malattia e la morte, la poesia e l’amore.
“Gentile e buona amica, …ma lei non credeva, e non crederebbe neppure ora, se io le dicessi queste cose. Perché crede che la vita sia una cosa e la poesia un’altra.
E sono una cosa sola”.


 

Breve storia della Villa Malpensata e del Museo d’Arte della Città di Lugano

La Villa Malpensata, costruita verso la metà del XVIII secolo è oggi la sede del Museo d’Arte della Città di Lugano.

Nel 1845, dopo varie trasformazioni e ampliamenti, la Villa divenne proprietà della famiglia Caccia. Nel 1893, all’atto della sua morte, Antonio Caccia, scrittore e collezionista d’arte, già diventato erede della Villa, la cede, insieme ad opere ed oggetti artistici, alla Città di Lugano, con la richiesta di vederla destinata ad ospitare un museo.
Nel 1903 la Città accetta il lascito Caccia con l’impegno di istituire nella Villa Malpensata un museo d’arte. Tale intenzione, dopo alterne vicende, trova esito con il restauro trasformativo della Villa, avviato nel 1967, al fine di ottenerne un vero e proprio museo.
Dopo l’apertura avvenuta nel 1973 e fino al 1990, il Museo della Villa Malpensata accoglie un centinaio di episodi espositivi, diversamente concepiti e allestiti. Ulteriori restauri sopravvenuti dopo il ’90 e un diverso orientamento espositivo a partire dal 1992 avviano una diversa fase: la Villa Malpensata assume la denominazione di Museo d’Arte Moderna divenendo sede per esposizioni temporanee dedicate, fino al 2007, all’arte del XX secolo con particolare attenzione al filone figurativo della pittura espressionista.
Dal 2008, con l’avvio a Lugano del Polo Culturale la Villa Malpensata assume la denominazione di Museo d’Arte. La nuova identità è rivolta ad esprimere nuovi criteri e concezioni dell’attività espositiva, nell’ottica di favorire relazioni attive con la rete museale esistente a Lugano, nel suo territorio ed oltre; con il Museo d’Arte si apre la nuova stagione dell’istituzione che, nel 2012-2013, porterà all’apertura del grande Centro Culturale della Città di Lugano.


 

Il Polo Culturale e il suo futuro Centro

Il «Polo Culturale» identifica una rete di soggetti istituzionali che, all’insegna di un indirizzo culturale rispondente a un progetto condiviso, agiscono in modo coordinato. Una forza propulsiva che è stata immaginata, sin dal suo costituirsi, per esprimere e valorizzare tutto il territorio. Immaginiamolo pure come una mano le cui cinque dita - la musica, il teatro, l'arte moderna e contemporanea, la storia e le altre culture - si muovono di concerto e con un fine comune. Bisogna, dunque, con chiarezza sin d'ora distinguere fra il «Polo culturale» e il grande edificio del «Centro culturale» che si inaugurerà nel 2013. Il «Polo» determinerà l’identità e l’azione futura di quel «Centro» di grande importanza e complessità in un clima di stimolanti relazioni internazionali.

La decisione di edificare nello spazio adiacente all'ex Albergo Palace il «Centro culturale» è l’esito di un processo che, negli anni, ha visto il Comune di Lugano promuovere in modo crescente la cultura, per innalzare la qualità della vita del cittadino e la realtà urbana, a un livello nazionale e internazionale. Il «Centro» sarà, dunque, il contenitore di eccellenza delle attività che riguardano la musica, le arti visive e sceniche.

Nel «Centro» confluiranno: il Museo d’Arte Moderna oramai diventato Museo d’Arte, la Collezione permanente e altri importanti fondi che costituiscono il patrimonio artistico della Città. A rafforzare ulteriormente la nuova realtà museale sarà la presenza di una sezione del Museo Cantonale d'Arte, istituzione con la quale saranno sviluppati progetti espositivi di particolare rilievo.

Inoltre, il «Centro» sarà la sede di un grande teatro, in grado di offrire nelle migliori condizioni, per gli artisti e per il pubblico, una stagione organica di concerti e di proposte teatrali e anche liriche di valore nonché la danza, che costituisce un settore in costante crescita creativa.

Gli altri soggetti principali che contribuiranno a rendere il «Polo Culturale» un vero e proprio laboratorio interdisciplinare, aperto alla più ampia collaborazione in rete, sono: l’Archivio Storico, il Museo delle Culture e Villa Ciani, sede di esposizioni a carattere storico-artistiche nonché di attività espositive e di ricerca, in sinergia con le istituzioni cantonali e federali.


Bruno Corà
Direttore del Museo d’Arte
Coordinatore del Polo Culturale
 

MASILugano



 

presenta l'iniziativa
del Polo Culturale
di Lugano:

La dinamo futurista.
Omaggio a
Umberto Boccioni

Primo Conti
 Disegni
per Harriet Quien,
"La donna
che venne dal mare"
1912-1925

15 Febbraio - 19 Aprile 2009
 

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BIOGRAPHY

SITEMAP

Museo d’Arte
Riva Caccia 5 - 6900 Lugano
Switzerland

MASILugano

Scheda tecnica della mostra

Presentazione

Comunicato stampa

Bruno Corà, omaggio a
Umberto Boccioni

Cristina Sonderegger,
omaggio a Umberto Boccioni

Maurizio Calvesi,
omaggio a Umberto Boccioni

Tonino Sicoli,
omaggio a Umberto Boccioni

Bruno Corà - Primo Conti

Daniela Palazzoli - Primo Conti

Attività educative
Dinamo futurista

Eventi collaterali
Dinamo futurista

Come raggiungere Lugano

Villa Malpensata e
Museo d'Arte

Il Polo Culturale
e il suo futuro Centro

Casinò Lugano
La dinamo futurista

Credit Suisse
La dinamo futurista

Ginsana_La dinamo futurista

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SITEMAP

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