Comunicato stampa
Enigma Helvetia
Arti, riti e miti della Svizzera moderna
Museo Cantonale d’Arte e Museo d’Arte, Lugano
27 aprile – 17 agosto 2008
a cura di Pietro Bellasi (Professore di Sociologia, Università di Bologna),
Marco Franciolli (Direttore Museo Cantonale d’Arte, Lugano), Carlo Piccardi
(Musicologo) e Cristina Sonderegger (Museo d’Arte, Lugano). Progetto
dell’allestimento a cura di Italo Grassi.
Dal 27 aprile al 17 agosto 2008, il Museo Cantonale d’Arte e il Museo d’Arte
di Lugano presentano, nelle due sedi espositive, una mostra di respiro
internazionale dal titolo Enigma Helvetia. Arti, riti e miti della Svizzera
moderna dedicata al complesso rapporto che, dalla fine dell’Ottocento a
oggi, ha caratterizzato la produzione artistica, la storia, la cultura e
l’immaginario di quel laboratorio unico e singolare che è la Svizzera.
Enigma Helvetia è la prima mostra ideata e prodotta congiuntamente dal Museo
Cantonale d’Arte e dal Museo d’Arte a Lugano quale primo evento del Polo
Culturale che in tal modo prende avvio con una iniziativa di carattere
storico critico compendiario e interdisciplinare.
A cura di Pietro Bellasi, Marco Franciolli, Carlo Piccardi e Cristina
Sonderegger, la mostra intende indagare le particolarità del mondo culturale
elvetico offrendo una lettura interdisciplinare di quest’ultimo attraverso
opere e testimonianze di arte, architettura, design, fotografia, video e
installazioni. Allo stesso tempo l’esposizione luganese vuole evidenziare lo
straordinario numero di artisti che lungo tutto il XX secolo hanno saputo
affermarsi quali protagonisti in ambito internazionale, fra questi Cuno
Amiet, Albert Anker, Jean Arp, Max Bill, Fischli&Weiss, Franz Gertsch,
Alberto, Augusto e Giovanni Giacometti, Ferdinand Hodler, Paul Klee, Markus
Raetz, Hermann Scherer, Roman Signer, Daniel Spoerri, Sophie Taeuber-Arp,
Jean Tinguely, Ben Vautier, Not Vital e numerosi altri.
Enigma Helvetia che si articola sulle due sedi museali del Museo Cantonale
d’Arte e del Museo d’Arte di Villa Malpensata, propone lungo il percorso
espositivo alcuni dei grandi temi presenti nella caleidoscopica realtà
culturale svizzera in un’esplorazione curiosa, sorprendente e a tratti anche
divertente dentro l’enigma elvetico.
Nel secolo appena trascorso, sullo sfondo del susseguirsi di tragedie,
chiusure, aperture, conflitti e profondi cambiamenti socio-politici, la
Svizzera ha profilato la propria identità e la propria posizione
internazionale, condizionando inevitabilmente, per reazione o
identificazione, rottura o assimilazione, anche le espressioni di
creatività. L’arte, o meglio, le arti e gli artisti che per nascita,
origine, elezione, eventi della grande storia e vicende personali si sono
trovati a confronto con la Svizzera e con la ‘Swiss way of life’, sono stati
protagonisti nel mondo lungo tutto il XX secolo.
Alle straordinarie opere d’arte provenienti dai più importanti musei
svizzeri e non solo, il percorso espositivo che a partire dal Museo
Cantonale prosegue nel Museo d’Arte, affianca immagini e oggetti del
quotidiano, delle tradizioni e della produzione industriale svizzera,
riuniti con un approccio frutto al contempo di considerazioni di ordine
estetico-artistico e antropologico che mettono in luce i processi di
miniaturizzazione, di ritualizzazione ed estetizzazione della vita
quotidiana, riflessi anche di quella precisione, perfezione, efficienza e di
quell’ordine che per molti aspetti caratterizzano il mondo elvetico. Non
potevano mancare le presenze di alcune società dello Swatch Group come la
mitica Swatch, oppure Omega con il primo orologio che è andato sulla luna, o
ancora Nivarox specializzata - a testimonianza dell'eccellenza
dell'industria orologiera svizzera - in componenti e nella micromeccanica
orologiera per le marche di prestigio nonché oggetti di uso quotidiano come
il coltellino svizzero, la cerniera Riri e il pelapatate Rex.
Tra gli elementi fondanti dell’immaginario elvetico e dell’identità
nazionale vi è evidentemente la montagna raffigurata nelle sue diverse
declinazioni, ora romantiche, ora mistiche, oppure ancora nelle conquiste
‘ascensionali’ tipiche del turismo che si sviluppa nel periodo della Belle
Epoque. Ma la montagna si presta quale soggetto artistico anche nelle sue
note drammatiche e ostili, metafora espressionista di una dimensione
esistenziale influenzata dagli sviluppi della storia, oppure ancora come
luogo paradisiaco e come rifugio, fulcro dei valori autentici da difendere
contro ogni aggressione.
Emerge, sino ai giorni nostri, la tensione fra tradizione e modernità, tra
localismo e cosmopolitismo, tra realtà urbane e realtà rurali custodi di
importanti e autentiche tradizioni spesso in contrasto con le ambizioni
internazionali dei centri cittadini. Questi contrasti si riflettono anche in
ambito artistico e culturale dove, sino alla metà del Novecento, all’arte
‘ufficiale’, caratterizzata da una figurazione di impostazione tradizionale,
sostenuta dalle istituzioni e dalla maggioranza della critica e del
pubblico, si contrappone un’arte nata dal confronto con le esperienze delle
avanguardie. Emblematica in tal senso è l’esperienza del Dadaismo: nato a
Zurigo dalla creatività di artisti principalmente stranieri rifugiatisi in
Svizzera durante la prima guerra mondiale, il movimento si propagherà in
tutta Europa ma per la realtà artistica e culturale svizzera si rivelerà
come un’esperienza estemporanea, la cui eredità e in particolar modo
l’approccio ironico alla realtà, si ritrovano nella produzione artistica
contemporanea.
Catalogo
La mostra è accompagnata da un catalogo riccamente illustrato edito da
Silvana Editoriale con numerosi contributi di storici, studiosi e critici
d’arte quali: Pietro Bellasi, Iso Camartin, Bruno Corà, Marco Franciolli,
Christoph Hänngi, Georg Kreis, Domenico Lucchini, Daniel Maggetti, Roberta
Mazzola, Carlo Piccardi, Lucienne Peiry, Chasper Pult, Fabio Pusterla, Bruno
Reichlin, Anna Ruchat, Peter Rüedi, Pascal Ruedin, Cristina Sonderegger.
Testi in italiano, tedesco, francese e rumantsch con traduzione in inglese.
Proposte didattiche
Per un approfondimento dei temi sviluppati nell’ambito dell’esposizione, il
Museo d’Arte e il Museo Cantonale d’Arte prevedono una serie di attività
didattiche ed educative che consistono in visite guidate, percorsi tematici,
visite-conferenza e atelier creativi, appositamente studiati per le diverse
fasce d’età e per le diverse esigenze del pubblico. Sarà possibile seguire
visite guidate in italiano, francese, tedesco e inglese nei singoli Musei o
partecipare a percorsi più impegnativi che prevedono una visita che si
sussegue nelle due sedi espositive. Per maggiori informazioni si prega di
contattare il numero: +41 (0)58 866 72 14 o scrivere all’indirizzo e-mail:
info.mda@lugano.ch
Biglietto combinato RailAway/FFS
Con il biglietto combinato RailAway, le visitatrici e i visitatori
approfittano di uno sconto del 20% sul viaggio in treno, sul trasferimento e
sull’entrata. Il biglietto combinato è ottenibile alla stazione di partenza
e al Rail Service 0900 300 300 (CHF 1.19/min.) a partire dal 1° aprile.
Informazioni dettagliate ed esempi di prezzo sul sito www.railaway.ch
Informazioni e richiesta di materiali stampa:
Italia:
Ufficio stampa Battage Comunicazione, Milano
Alessandra de Antonellis tel. +39 339 3637388 e-mail:
alessandra.deantonellis@battage.net
Margherita Baleni tel. +39 349 1721251 e-mail:
margherita.baleni@battage.net
Svizzera:
Museo Cantonale d’Arte, Lugano
Benedetta Giorgi Pompilio tel. +41 (0)91 910 47 87 fax. +41 (0)91 910 47 88
e-mail: benedetta.giorgi@ti.ch
Museo d’Arte, Lugano
Sabina Bardelle tel. +41 (0)58 866 70 90 fax. +41 (0)58 866 71 03
e-mail: sbardelle@lugano.ch |
Il
Museo Cantonale d’Arte a Lugano
Dalla sua apertura nel 1987, il Museo Cantonale d'Arte di Lugano continua a
sviluppare la propria attività in parallelo verso due ambiti principali: la
conservazione della collezione permanente, che copre un arco cronologico
compreso tra il 1800 ed oggi, e la realizzazione di esposizioni temporanee.
In oltre vent’anni di attività, il Museo ha proposto più di novanta mostre
affrontando tematiche molto diverse tra loro, dalla pittura alla scultura,
dalla fotografia al video, all’architettura e alla grafica, mantenendo
sempre una grande attenzione al contemporaneo.
L’attività espositiva è divisa in mostre monografiche (Kandinsky, Tauber
Arp, Domela, Jawlensky, per citarne solo alcune tra quelle proposte) e
mostre dedicate a grandi problematiche del Novecento, ad esempio: la
trasformazione del concetto di forma nella mostra Da Kandinsky a Pollock, il
rapporto tra pittura e fotografia in L’immagine ritrovata, la relazione tra
disegno infantile e grandi artisti del Novecento in Les Enfants Terribles,
l’idea di vuoto nell’arte italiana dagli anni Sessanta ad oggi in L’immagine
del vuoto.
Particolare attenzione è rivolta ad artisti legati per nascita o per
adozione al territorio ticinese.
Va inoltre sottolineato il percorso di approfondimento sulla cultura
fotografica che il Museo ha promosso fin dall’inizio della sua attività e
che vede il programma 2008 inaugurarsi proprio con la mostra Vaccari di
Franco Vaccari. Antologia fotografica 1955-2007, prima esposizione
antologica internazionale dedicata all’artista modenese, protagonista
dell’arte concettuale italiana.
Le mostre temporanee si alternano regolarmente alla presentazione di opere
che fanno parte della collezione permanente.
La collezione del Museo Cantonale d’Arte comprende principalmente opere del
XIX e XX secolo, con alcune significative incursioni nei secoli precedenti,
realizzate sia da artisti ticinesi o artisti stranieri che hanno lavorato
nella Svizzera italiana, sia da artisti italiani e di altri Paesi che hanno
avuto un ruolo di primo piano nell’ambito della storia dell’arte moderna e
contemporanea tra cui, solo per citarne alcuni di vari periodi: Degas,
Renoir, Pissarro, Hodler, Klee, Ozenfant, Oppenheim, Melotti, Orozco,
Dijkstra, Struth.
Le opere che compongono la collezione permanente provengono principalmente
dal patrimonio artistico del Cantone Ticino, cui si aggiungono acquisizioni
dirette, donazioni e depositi di altri musei svizzeri (Ginevra, Basilea,
Zurigo, Winterthur), della Confederazione Elvetica, dell’Associazione
Promuseo e di privati.
Negli ultimi anni il Museo ha beneficiato tra l’altro di un’importante
donazione del conte Panza di Biumo, che ha permesso all’istituto di
collocarsi tra i musei svizzeri più ricchi di opere dell’area Post-minimal.
Il costante sviluppo della collezione rappresenta uno degli obiettivi
principali del Museo, che persegue una politica mirata di acquisizioni con
lo scopo di documentare le diverse componenti dello sviluppo artistico
dall’Ottocento ad oggi in rapporto a un territorio, quello del Ticino,
situato tra il Nord e il Sud dell’Europa.
Il Museo Cantonale d'Arte ha sede a Palazzo Reali, ex-residenza privata
donata al Cantone Ticino e agglomerato di tre edifici del XVI, XVII e XVIII
secolo, tra i più significativi del centro storico di Lugano. Il Museo si
trova nel cuore della città a pochi passi da Piazza della Riforma e dalle
rive del lago.
Mediazione culturale
Il Museo Cantonale d’Arte sviluppa da diversi anni un’intensa e articolata
attività di mediazione culturale, con l’obiettivo di sensibilizzare il
pubblico nei confronti della cultura artistica. I programmi didattici sono
rivolti a tutte le fasce di età e configurati in relazione al programma
espositivo del Museo. Vengono proposte visite guidate abbinate a laboratori
per le scuole elementari e medie inferiori, visite guidate per le scuole
medie superiori e per gruppi di adulti. Il sabato e la domenica vengono
spesso organizzati eventi particolari, tra i quali si segnalano gli
appuntamenti per i più piccoli, intrattenuti con animazioni, racconti,
concerti o spettacoli teatrali.
Parallelamente al programma espositivo vengono organizzati cicli di
conferenze e simposi in collaborazione con la STBA (Società Ticinese Belle
Arti).
Biblioteca
Il Museo Cantonale d’Arte dispone di una biblioteca specialistica di oltre
10’000 volumi, tra cataloghi, monografie, saggi d’arte e riviste
specializzate. Il catalogo della biblioteca è disponibile online sul sito
del Sistema bibliotecario ticinese: www.sbt.ti.ch.
Videoteca
Il Museo Cantonale d’Arte possiede una collezione di arte video tra le più
importanti a livello svizzero, frutto della donazione del VideoArt Festival
di Locarno. Sono inoltre a disposizione del pubblico una serie di
documentari sull’arte prodotti dalla TSI (Televisione della Svizzera
Italiana). I video possono essere visionati in sede previo appuntamento.
Museum shop
Pubblicazioni, cartoline, oggetti, giochi e multipli d’artista possono
essere acquistati presso la spazio vendita del Museo. |
Alcune tematiche sviluppate al Museo Cantonale d’Arte
Il sentimento della montagna
Un elemento unificante per quanto riguarda la produzione artistica svizzera,
è, senza dubbio alcuno, il sentimento della montagna, declinato in infinite
varianti, dalla più metaforicamente allusiva al riferimento più diretto. Gli
artisti non hanno solo guardato al paesaggio, ma hanno trovato ispirazione
in tutte le manifestazioni del mondo naturale alpino, interpretandole di
volta in volta con accenni poetici, sognanti, terrorizzati, divertiti o di
ammirato realismo nelle loro opere. La mostra presenta la grande varietà di
stili e di forme attraverso i quali si sono espressi nell’arte svizzera la
montagna e il paesaggio, dalle visioni romantiche di Turner a quelle
espressioniste di Hodler, dalla montagna gialla di Amiet alle gouache
realistiche di Klee, dalla giocosa simulazione paesaggistica del letto
disfatto di Fischli & Weiss alla montagna virtuale di Monica Studer e
Christoph van den Berg.
L’invenzione del paradiso
L’invenzione del paradiso è il titolo di un libro d’immagini composto dal
grande regista cinematografico Daniel Schmid in collaborazione con Peter
Bener. Proveniente da una famiglia di albergatori di Flims egli ci
ripropone, con nostalgia e humour, la grande stagione, sognante e
cosmopolita, della scoperta turistica delle Alpi e della loro trasformazione
in “riserva” di vita nella natura, di aria salubre e di acque taumaturgiche,
di avventure montanare e di giochi sportivi a rischio e fatica controllati;
di genuinità e di rudezze di popolazioni autoctone ritenute, in onore a
Rousseau, primitive e serene. I villaggi delle Alpi svizzere divengono
santuari della Belle Epoque: raccolgono frammenti e resti della morente vita
agricolo-pastorale minata dalla modernità e li assemblano a costruire i
teatri del “grazioso”, del folkloristico, del “pittoresco”. D’altra parte le
comodità sfavillanti delle città seguono queste illustri clientele
concentrandosi nei favolosi alberghi-cattedrali Jugendstil, mastodontici e
paradossali meteoriti di raffinatezze architettoniche, posati
perentoriamente a fianco di rocce, cascate, ghiacciai, laghi e dirupi.
Proprio da allora la Svizzera si sente guardata, ammirata, osservata,
frugata fino nell’intimo della sua quotidianità da sguardi “estranei”.
Certamente anche da qui il grande impegno di “estetizzazione” della vita
quotidiana, il leggendario propre-en-ordre, la cura minuziosa, la
manutenzione meticolosa degli ambienti, dei mezzi, degli arredi: non
accessori secondari, ma punti focali di una identità culturale elvetica.
Sacre cime
Quando, nell’ottobre del 2001 un TIR bruciò dentro il traforo autostradale
del San Gottardo e la fotografia di quell’antro di fiamme fece il giro del
mondo, si rileva dai commenti del tempo che l’evento suscitò timori oscuri,
ancestrali. Quasi che quel massiccio, percepito ancora come una montagna
sacra (l’ultimo baluardo e rifugio di una Svizzera eventualmente assediata)
avesse vendicato l’oltraggio di chi aveva osato trapassarlo da parte a parte
come un pane di burro. E non scalarlo, assecondandone almeno in parte i
rilievi, le pieghe, i contrafforti come aveva fatto più di un secolo
addietro la ferrovia con i suoi tornanti e le sue famose gallerie
elicoidali: un vero monumento tecnologico che sembrava riconoscerne ancora
la maestà imponente e severa.
Insomma, quell’incidente ha rappresentato un momento drammatico della
durezza, della faticosità ma anche della crudeltà della natura in ambiente
di montagna sia e soprattutto per coloro che vi abitavano con il loro
lavoro, sia per quanti erano obbligati a traversare le Alpi lungo le “vie
male” e gli innumerevoli “ponti del diavolo”, spesso in preda a tempeste,
tormente e slavine che, nelle allucinazioni del terrore, si palesavano come
mostruosità al tempo stesso naturali e soprannaturali. In epoche
pre-cristiane maschere terrifiche venivano indossate per spaventare e
cacciare gli spiriti maligni che si annidavano negli orridi dell’oscurità
invernale; o per inneggiare al ritorno della luce a fine inverno. In
seguito, l’antico spirito magico si intreccia teneramente con la religione,
esprimendo con ingenuità commovente la gratitudine alle divinità per gli
scampati pericoli: sono gli ex-voto, rappresentazioni incantate in un
realismo naïf che riflette la fede nella presenzialità cristallina del
prodigio; illustrazioni di una “fiaba della vita” in chiave quasi infantile.
Il mito di Heidi
I bisogni profondi dell’infanzia, libertà, immaginazione e gioco, trovano
nello spazio e nella natura delle Alpi lo scenario incantato dove fiabe e
fantasie possono prendere forma.
Nel 1880, la scrittrice svizzera Johanna Spyri (1827-1901) pubblica Heidi,
romanzo emblematico del binomio montagna-infanzia, trasposto in innumerevoli
versioni cinematografiche e televisive in tutto il mondo. L’immagine
registrata nella memoria collettiva è quella di ripidi pendii fioriti dai
quali precipita a rotta di collo la ragazzina, icona di libertà e
affrancamento dai condizionamenti cittadini. Questo inno alla semplicità
trova un corrispettivo nei ritratti infantili di Albert Anker (1831–1910)
straordinario pittore svizzero, molto amato dal grande pubblico per i suoi
soggetti, in particolare quelli dell’infanzia che parlano direttamente ai
sentimenti dell’osservatore. La Mariette aux fraises è un dipinto potente,
dove la qualità altissima della tecnica pittorica di Anker restituisce ogni
dettaglio: la resa quasi tattile dei tessuti modesti, la posizione delle
mani che trattengono le fragole di bosco, la dolcezza dell’espressione del
viso e degli occhi della bambina, il rapporto simbiotico con il paesaggio
circostante.
Maria und Benz, rispettivamente moglie e figlio dell’artista Franz Gertsch
(1930) – ritratti come in un’istantanea fotografica – esprimono lo stato
d’animo gioioso e rilassato di una passeggiata nella natura. Il bimbo porta
una camiciola tradizionale bernese, che introduce una nota folcloristica
locale. Nell’insieme il dipinto assume una dimensione atemporale e
universale con, al centro, il bambino felice nella natura.
Verticalità e orizzontalità
John Ruskin, il grande critico inglese, scrive che se una qualsiasi montagna
potesse raccontare la propria storia, inizierebbe col ricordare quanto era
stata grande. E Ferdinand Hodler sostiene che il tormento drammatico dei
picchi, delle creste, delle punte che si ergono nella solitudine delle
altezze è destinato ad acquietarsi nella orizzontalità inerte del fondo
degli oceani.
Al contrario, il mito delle altitudini, l’idea stessa di verticalità, di
ascensionalità, appartengono a un immaginario epico, persino mistico, a
volte solo “turistico” della montagna, le cui vette, pareti, precipizi,
cenge e seracchi sembrano lanciare messaggi di sfida al coraggio, alla
temerarietà di scalatori pronti a rischiare per realizzare ambizioni e
ideali. Aspetti, questi, trascurati dalle popolazioni autoctone che hanno
sempre percepito “le cime” come luoghi inospitali per uomini e animali,
sterili per qualsiasi coltura.
Ma in particolare molti artisti vedono nella montagna, come Ruskin e Hodler,
un panorama di rovine e di crolli, il regno dell’entropia, della stanchezza
immane della materia cosmica, sotto i colpi della corrosione e del
dilavamento. La metafora dell’ erosione e della resistenza dei materiali e
delle forme della montagna si incarna nelle figure esili e irriducibili di
Alberto Giacometti, le cui esistenze fragili e coriacee esprimono quanto
inesorabilmente il tempo precipiti nella perdita.
I corpi di Augustine Dupin e di Valentine Godé-Darel disegnati e dipinti da
Hodler nella loro inerzia quasi “minerale” tracciano gli stessi skyline dei
suoi “paesaggi planetari” e di quella loro natura inabitata, che pare
rassegnarsi all’appiattimento di una esausta orizzontalità.
L’epopea dei trasporti
I treni in Svizzera costituiscono un mito fondatore della modernità, come
Guglielmo Tell lo è stato in passato. Una rete ferroviaria possente unisce,
materialmente e non solo idealmente, con un legame d’acciaio e di
tecnologie, le diversità di etnie e di culture che costituiscono la
Confederazione. Le grandi linee, del Gottardo, del Sempione, del Lötschberg,
le Ferrovie Retiche e così anche i numerosi “trenini dei ghiacchiai”, come
quello leggendario della Jungfrau, hanno illustrato una vera e propria saga
di una popolazione ospite di una natura sublime, ma originariamente anche
prigioniera della sua orografia selvaggia, aspra e, per certi aspetti,
crudele.
La genialità, spesso la temerarietà progettuale di viadotti e gallerie,
l’inventiva e la prestanza scientifico-tecnica di grandi officine
elettro-meccaniche che hanno costruito locomotori divenuti famosi nel mondo
hanno realizzato un sistema tecnologico che sembra collegare virtuosamente
la Storia delle grandi conquiste umane con la vita quotidiana di tutti i
giorni della gente qualunque. Così, proprio nella quotidianità, il treno
appare come esempio emblematico di una “tecnologia buona”, ecologicamente
corretta: anche nella pubblicità si presenta come un benefico bestione
meccanico che fa parte integrante della natura e dei suoi cicli stagionali.
La mitica qualità dei trasporti svizzeri è completata dai “postali” gialli
che si arrampicano sui passi alpini ai bordi dei ghiacciai e nei villaggi
più remoti, facendo rimbalzare sulle pareti delle valli le note del loro
famoso clacson; e dai battelli bianchi un po’ retrò che scorrono i laghi
glaciali incastonati tra le rocce e i boschi.
Altre montagne
Nel 1997 la curatrice Bice Curiger propone al Kunsthaus di Zurigo una mostra
dedicata alla giovane arte svizzera dal titolo suggestivo ed efficace: Freie
Sicht aufs Mittelmeer. Junge Schweizer Kunst. Non solo si può cogliere in
questo titolo l’eco di uno slogan utopico espresso dalle generazioni della
contestazione, ma anche la sottile ironia di uno sguardo capace di
attraversare le montagne per giungere al Mediterraneo. In un senso più
ampio, il titolo allude al desiderio – tipico per chi vive circondato da
alte montagne – di vedere ciò che sta dietro, di superare la barriera,
quella naturale e quella metaforica.
Nelle visioni degli artisti, però, la montagna può anche trasformarsi in
mare, come nelle suggestive immagini di Thomas Flechtner intitolate San
Gottardo Walk: il ghiacciaio può fondersi, ritirarsi o creare forme
primordiali come anche nell’istallazione di Reto Rigassi dal titolo Ø 592,
crescita-decrescita, Ghiacciaio del Rodano.
Ancora, esercitazioni militari o movimenti di gatti delle nevi trasformano
la montagna notturna in scenario per spettacoli pirotecnici, come nell’opera
di Relax (chiarenza & hauser & co.) e nella fotografia di Jules Spinatsch
della serie Snow Management che evocano metaforicamente uno dei temi più
sensibili dell’epoca contemporanea, quello dell’ecologia e della
preoccupazione per l’ambiente, entrambi molto presenti nella società
svizzera e sempre più oggetto d’attenzione anche per l’arte.
Frammenti e montaggi
L’arte svizzera più recente sembra giocare, in modo scanzonato, con gli
elementi più eterogenei. Le opere si compongono di assemblaggi
apparentemente incongrui, come in Oh Ubi! e Eisenbert di Lutz & Guggisberg,
artisti che giocano liberamente con le forme e le associazioni di idee,
mescolando argutamente linguaggi e tecniche diverse. Una libertà presente
anche nell’ossimoro, a prima vista vagamente ridicolo, di un nanetto
gigantesco che sovrasta la montagna evanescente nel dipinto di Andrea
Gabutti. La figurina, stereotipo rassicurante nei giardini svizzeri, assume
nuovi significati sulla tela e provoca associazioni d’idee inedite e
vagamente inquietanti. Sicuramente fra le caratteristiche più rilevanti,
riscontrabile nel lavoro di molti artisti contemporanei svizzeri, è la
costruzione dell’immagine tramite l’assemblaggio di frammenti eterogenei –
riconducibile a una sorta di montaggio cinematografico come quello presente
nell’Autoritratto del 1971 di Urs Lüthi – un’immagine che non si genera più
come costruzione lineare dell’idea del mondo, ma come riflesso immanente
della frammentarietà della realtà contemporanea. Un atteggiamento simile si
ritrova nella ricorrente struttura proteiforme delle opere di Pipilotti
Rist.
A chiudere simbolicamente il percorso espositivo è l’artista coreano Nam
June Paik. Con Swiss Flag, Red Cross, Paik rende omaggio alla Svizzera,
creando una dinamica immagine caleidoscopica che sembra riflettere la
vivacità e la varietà della scena artistica contemporanea svizzera.
I miti fondatori
Come noto l’identità nazionale svizzera è fondata sul paradosso
dell’eterogeneità piuttosto che sull’omogeneità politico-culturale e
linguistica. Più di ogni altro paese la Svizzera necessita di un collante
“mitico” che deve essere continuamente alimentato sia a livello storico che
quotidiano.
Così il patto del Rütli e la ritrata da Marignano -episodio che venne
identificato come l’eroico e consapevole ritiro dei soldati elvetici dai
conflitti internazionali e l’inizio della neutralità
del paese- attraverso le opere di Füssli e Hodler non vengono semplicemente
raccontati ma acquistano nuovo vigore: la straordinaria modernità di questi
indiscussi maestri rinnova il valore simbolico di questi episodi e li
inserisce in una dimensione atemporale.
Accanto a queste opere di altissimo livello la mostra presenta oggetti
scelti con un taglio antropologico, dal plastico che mostra la “culla della
Confederazione” ossia la regione che dal praticello del Rütli e dal lago dei
quattro cantoni si estende fino alla maestosa sagoma dei Mythen, fino ai
‘quadri musicali’ di inizio novecento che con musica e figurine animate
ripetevano all’infinito le vicende di Gugliemo Tell e dei tre confederati.
Gli artisiti contemporanei propongono invece una visione ironica e
disincantata delle storia come nel caso dell’opera realizzata da Relax
(chiarenza & hauser & co), immagine capace di
mettere in discussione non solo il ruolo della donna nella recente storia
svizzera ma anche un certo tipo di interpretazione politica attribuita ai
dipinti di Hodler.
Silenzi e solitudini
Si può dire che per certi aspetti e pure, evidentemente, con grandi
diversità formali Walter Kurt Wiemken e Alberto Giacometti raccolgano e
conducano alle conseguenze più drammaticamente estreme, e anche più
universali, l’esperienza esistenziale di quel “certo espressionismo” che si
sviluppa in Svizzera tra il 1915 e il 1940: “un’inquietante passeggiata di
solitari nella estraneità del mondo”, come ha scritto qualcuno.
L’incomunicabilità, le allucinazioni delle immense solitudini metropolitane
e di quelle vissute nell’ambiente ostile e disumano di rocce e burroni;
l’isolamento ossessivo, la claustrofobia di una vita quotidiana abitudinaria
che nasconde nella sua familiarità e intimità securizzante l’ambiguità di un
tempo ciclico e ripetitivo col suo messaggio di morte.
Qualcuno accosta Le serre di Wiemken a Il palazzo delle quattro del mattino
di Giacometti: ambienti labirintici dalle strutture trasparenti, eppure
irrimediabilmente chiusi, come per lo scatto di una trappola, nell’attesa
senza fine di un appuntamento permanentemente rimandato col tempo.
Ma certo è lo stesso appuntamento che implica la Figurine dans une boîte
entre deux maisons, intenta a percorrere uno spazio che si rivela al tempo
stesso chiuso e indefinito, perché speculari e intercambiabili sono i punti
di partenza e di arrivo.
Armand Schulthess
Nel 1951 all’ età di cinquant’anni, Armand Schulthess abbandona il suo posto
di funzionario federale presso il Dipartimento dell’economia pubblica per
iniziare una nuova vita autarchica nella sua proprietà ticinese di Auressio.
La scelta di Schulthess non è né passatista, né nostalgica e non ha niente
di esotico. La sua è una rottura di ordine professionale, sociale e mentale.
Fra i castagni e i vigneti che crescono rigogliosi nella tenuta crea il suo
Giardino dell’Eden, un mondo utopico e, al tempo stesso delirante, nel quale
organizza un sistema complesso di sentieri, passerelle, ponti, scale, punti
di sosta e vedute panoramiche. Su questo territorio interviene direttamente
attaccando, inchiodando e legando fra loro e agli alberi, alle pietre e ai
muri centinaia di placche di latta recuperate da bidoni e barattoli per
conserve. Le placche sono ricoperte di iscrizioni spesse e colorate, dipinte
con un ferro da calza o un legnetto smussato alle quali si aggiungono in
seguito anche cartoni e assemblaggi di fogli scritti a macchina e protetti
da plastica trasparente.
L’universo fantastico di Schulthess non nasce ex nihilo nel 1951, la sua
fuga non è improvvisa. Già da tempo il tranquillo funzionario federale
raccoglieva e archiviava di nascosto tutta la documentazione necessaria alla
realizzazione del suo ‘giardino della conoscenza’, assemblando e rilegando
quanto raccolto in più di settanta libri. Questo materiale sarebbe servito
come punto di partenza per l’elaborazione del suo universo, la sua creazione
era premeditata nel segreto, nel silenzio, nella solitudine.
I testi trascritti e redatti in cinque lingue dall’ex-funzionario riguardano
le discipline più disparate: dalla geologia all’astrologia, dalla lirica
all’astronomia, dalla matematica alla letteratura, dalle scienze occulte ai
problemi di cuore e di cucina, la sua ambizione sembrava essere quella di
creare un’enciclopedia vivente e infinita. L’impressionante giardino ad un
primo sguardo doveva apparire come un mondo labirintico, logorroico e
caotico: una visione più attenta rivelava invece quanto l’ambiente creato
fosse strutturato e rispondesse ad una sistematica precisa. Le iscrizioni
sono spesso rivolte a potenziali lettori e dimostrano quindi una volontà di
comunicare con il prossimo. Ciò appare tuttavia paradossale rispetto al suo
comportamento: come gli abitanti del luogo ricordano, Schulthess si
nascondeva e fuggiva da ogni potenziale interlocutore, aveva persino
tagliato la sua linea telefonica; sentendosi inadeguato al dialogo
convenzionale preferiva comunicare attraverso questo suo intricato sistema
di “messaggi in bottiglia”.
Nella sua creazione Schulthess diventa demiurgo, riorganizza il cosmo e
riordina il pensiero umano coniugando cultura e natura, spirito ed emozione,
utilizzando la natura come supporto diretto della sua esperienza. La sua
contestazione poetica è rimasta tuttavia lettera morta: nel 1972 muore per
ipotermia in seguito alla caduta da una roccia. L’anno seguente le autorità
ticinesi e gli eredi svuotano la sua casa di Auressio, bruciano e
distruggono tutto quanto l’ex-funzionario aveva installato sul suo terreno.
Solo grazie alla sensibilità di alcune persone affascinate dalla creazione
di Schulthess alcune testimonianze del suo lavoro si sono salvate: numerose
placche ricoperte di iscrizioni, diversi libri e un piano manoscritto della
sua proprietà. Il documentario realizzato da Hans-Ulrich Schlumpf insieme
alle fotografie di Theo Frey e Gérald Minkoff costituiscono le uniche prove
dell’esistenza del giardino di Schulthess di cui oggi non resta nulla in
situ.
Dada & co.
Nel corso del primo conflitto mondiale, Zurigo si afferma come teatro di una
delle esperienze più importanti dell’arte del primo ventennio del Novecento
e che più di altre avrebbe influenzato l’arte moderna fino ai giorni nostri,
ovvero la nascita del movimento Dada. Fondato nel 1916 e animato da artisti
come Jean Arp, Hugo Ball, Emmy Hennings, Richard Hülsenbeck, Marcel Janco,
Francis Picabia, Hans Richter, Sophie Taeuber-Arp, Tristan Tzara, che fecero
del Cabaret Voltaire la sede delle loro attività teatrali e performative, il
gruppo allestì la sua prima mostra nel gennaio-febbraio 1917 presso la
galleria di Han Coray, che sarebbe divenuta la sua sede espositiva.
Dada, con la sua rottura eversiva rispetto al passato, il rifiuto delle
regole, l’inclinazione al disordine, alla casualità e all’ironia, è stato
una forma di risposta collettiva al non senso della guerra nel contesto di
un paese in cui, malgrado gli orrori che avvenivano al di fuori dei suoi
confini, si viveva una quotidianità tutto sommato normale. Con la fine della
guerra e la progressiva partenza di quei protagonisti che fecero di Zurigo
un punto di riferimento della cultura d’avanguardia, quell’eccezionale
dinamismo e quello spirito internazionalista che attraversarono la Svizzera
sull’arco di un quadriennio andarono progressivamente affievolendosi.
Solo a partire dagli anni settanta in poi si avverte il desiderio di dare
uno scossone allo status quo elvetico attraverso atteggiamenti nei quali si
possono ravvisare dei legami con lo slancio sovversivo Dada: le frasi
dirette e incisive di Ben, i ‘tableaux piège’di Spoerri o ancora le macchine
disordinate di Tinguely e le imprevedibili performance di Roman Signer
riprendono in parte l’atteggiamento mentale dadaista riuscendo a farci
riflettere con ironia sulla realtà che ci circonda.
Made in Switzerland
Precisione, qualità della forma e dei materiali, durata nel tempo,
funzionalità, sono alcune delle caratteristiche di oggetti di uso
quotidiano, frutto di una straordinaria creatività e inventiva che hanno
reso il design svizzero famoso nel mondo. A distinguere i tessili, i mobili,
la tipografia, gli utensili prodotti in Svizzera è la razionalità
accompagnata da grandi idee, la fusione fra tecnologia avanzata e tradizione
artigianale, ma anche la presenza di una cultura alta della forma unita
spesso ad una dimensione giocosa e lievemente ironica. Enigma Helvetia
propone, quale tesoro da custodire in luogo sicuro, alcune fra le più
brillanti realizzazioni del design svizzero: le cerniere Riri più
tecnologiche, realizzate per Alinghi; il “caso” Swatch e i suoi prototipi;
il modesto e preziosissimo pelapatate Rex; le pinzette Rubis, metafora
tangibile della precisione svizzera; il celebratissimo coltellino svizzero;
la borsa Freitag divenuta rapidamente vero e proprio oggetto di culto.
Bill e Tinguely: precisione e follia
Diversamente dagli stereotipi consolidati per i quali la Svizzera è sinonimo
di ovattata armonia e di felpate integrazioni etnico-culturali quanto di
flemmatiche alchimie politiche, al contrario essa si rivela un paese di
grandi contraddizioni anche drammatiche, insomma proprio come il resto del
mondo. Quegli stereotipi prendono spunto, tra l’altro, da un certo esotismo
pittoresco che riguarda la manutenzione e la pulizia delle sue città, la
cura miniaturistica del territorio e, più in generale, la precisione, vero
valore culturale che, coniugandosi con la propensione alla miniatura, con
una indubbia genialità tecnologica e una coraggiosa imprenditorialità, ha
reso famosa la Svizzera per la sua produzione micromeccanica.
Ma anche le contraddizioni riemergono continuamente. Pensiamo soltanto alla
specificità di un paese aggregato non sulle omogeneità ma su vere e proprie
incongruenze culturali e linguistiche. Pensiamo al rapporto antitetico fra
dimensione della Storia e dimensione della vita quotidiana ma anche ad altri
dualismi come cosmopolitismo e localismo, innovazione e tradizione,
accoglienza e xenofobia ecc.
Così potremmo trovare una relazione metaforica assai stretta fra le
creazioni di un artigiano–artista orologiaio come Walther Signer, che in
anni di lavoro manuale realizza affascinanti orologi cosmici o una pendola
meccanica a precisione “elettronica”, e gli artisti dell’arte concreta,
intenti a cogliere una rigorosa, essenziale astrazione geometrica di ritmi
concettuali, di forme e di colori.
Ma ecco, proprio in antinomia con l’immaginario della precisione e del
nitore della funzionalità tecnologica, gli sberleffi meccanici delle
fragorose e squinternate macchine di Jean Tinguely. Concepite nel paese dei
gioielli micromeccanici, queste sue “macchine celibi” introducono un dubbio
corrosivo sulla stessa razionalità tecnica occidentale: geniale
proseguimento dei sacrilegi pseudo-scientifici (“patafisici”) di Marcel
Duchamp.
Miniaturizzazioni
Small is beautiful potrebbe essere il motto di questo piccolo paese
incastonato nel miocardio roccioso dell’Europa. In effetti la percezione di
una realtà miniaturizzata la offre prima di tutto il paesaggio: ai piedi di
informi, imponenti, a volte colossali meteoriti di roccia e di ghiaccio, i
fienili, le fattorie di legno crivellate di finestre minuscole, gli châlets
con le leggendarie cataste di legna a mosaico perfetto, i villaggi, i nastri
perfettamente stirati di strade e viottoli: tutto ciò sembra appartenere a
un “plastico”, a una riproduzione a scala ridotta. Gran parte del paesaggio
svizzero provoca una sorta di vertigine dimensionale.
Qui, ciò che appare “più piccolo” comporta anche una produzione di cose
“ordinate e pulite”, un’abbondanza di “leggiadro” e di pittoresco conservato
per l’eternità.
Tempo ed eternità si intrecciano nel prodotto-archetipo del lavoro svizzero,
l’orologio: un manufatto che concentra una grande quantità di energia
ideativa e lavorativa nella minore quantità possibile di materia prima.
Inoltre, nei meccanismi e nei ritmi minimi dell’orologio si incontrano
tradizioni di abilità artigianali e grandi innovazioni
tecnologico-produttive. Sul quadrante analogico tornano e ritornano le ore
di una vita quotidiana ripetitiva, ma estetizzata, ritualizzata, coltivata
come un bonsai: una miniatura domestica del tempo, preservata dalla invasiva
monumentalità della grande Storia.
Anche i merletti di San Gallo o i ritagli di carte del Pays-d’en-Haut o le
figurine sulle teste delle maschere di Urnäsch testimoniano la poesia e
l’intimità anche un po’ claustrofobica del “tempo minore” della
quotidianità. |