Biografia di Nobuyoshi Araki

1940
Nobuyoshi Araki nasce il 25 maggio a Minowa nell’area centrale (Shitamachi) di Tokyo. Il padre artigiano gestisce un negozio di zoccoli tradizionali (geta) insieme alla moglie ed è appassionato di fotografia.

1952
Araki prende in prestito la macchina fotografica del padre (una Baby Pearl 3x4) e scatta le sue prime fotografie durante un viaggio scolastico. Ritrae una compagna di classe di cui era segretamente innamorato e paesaggi nei quali include sempre delle figure.

1959
Si iscrive al Dipartimento di fotografia e stampa della facoltà di ingegneria dell’Università di Chiba.

1963
Ottiene la laurea in fotografia e regia. Presenta come lavoro di diploma un film sulla vita di un gruppo di ragazzini, alla base del lavoro fotografico intitolato Satchin and his Brother Mabo.
Inizia a lavorare come fotografo presso l’agenzia pubblicitaria Dentsu.

1964
Grazie a Satchin vince l’importante premio Taiyo per i giovani fotografi giapponesi.

1965
Tiene la sua prima mostra personale.

1967
Il 18 marzo muore suo padre Chotaro. Incontra Yoko Aoki che lavora come dattilografa presso la Dentsu. L’inizio della loro relazione amorosa vede Yoko diventare un soggetto ricorrente nell’opera di Araki.

1970
Fotocopiando le sue fotografie realizza “in proprio” la sua prima pubblicazione Xerox Photo Album. In occasione della mostra Sur-sentimentalism Manifesto No.2: the Truth About Carmen
Marie espone per la prima volta ingrandimenti di genitali femminili.

1971
Il 7 luglio sposa Yoko. Pubblica Sentimental Journey, resoconto fotografico della loro luna di miele.

1972
Lascia la Dentsu e inizia la carriera di fotografo freelance.

1973
Scatta le prime fotografie di fiori nel tempio di Jokanji, luogo di sepoltura delle prostitute di Tokyo durante il periodo Edo.

1974
Insieme a Masahisa Fukase, Eiko Hosoe, Daido Moriyama, Shomei Tomatsu, e Noriaki Yokosuka fonda la Photo Workshop School che sarà attiva fino al 1976. L’11 luglio muore sua madre Kin. Araki fotografa la sua salma.

1976
Incontra Akira Suei, editore di numerose riviste erotiche. Lavoreranno a stretto contatto negli anni successivi documentando la vita notturna di Tokyo e le abitudini sessuali dei giapponesi.

1979
Realizza una prima serie di fotografie dedicate alla pratica del bondage per la rivista “SM Sniper”.

1981
Realizza il suo primo film intitolato Pseudodiary of a High School Girl.

1986
Realizza il suo primo Arakinema, un diaporama delle sue immagini con due proiettori accompagnato da musica. Questo modo di presentare il suo lavoro diventerà parte integrante della sua produzione artistica.

1988
La gatta Chiro entra nella vita di Araki e Yoko. Come successe per Yoko, Chiro diventa uno dei soggetti preferiti di Araki.

1989
Nel mese di agosto Yoko viene ospedalizzata a causa di un tumore.

1990
Yoko muore il 27 gennaio.

1991
Presenta la serie Winter Journey che documenta l’ultimo anno di vita di Yoko e completa il racconto della loro vita comune iniziato con Sentimental Journey. Pubblica le due serie congiunte in Sentimental Journey / Winter Journey.

1992
La sua prima mostra personale in Europa (Akt-Tokyo 1971-1991) si apre al Forum Stadtpark di Graz per poi essere presentata in altre dieci città tra cui Zurigo.

1994
Pubblica Tokyo Love, frutto della collaborazione con Nan Goldin.

1997
Realizza la copertina dell’album Telegram di Björk.

1999
Sentimental Journey, Sentimental Life, la sua prima mostra personale presso un’istituzione pubblica giapponese, viene presentata al Museum of Contemporary Art di Tokyo.

2002
Inizia il progetto Japanese Faces che si propone di raccogliere quanti più ritratti possibile di abitanti di tutte le zone del Giappone.

2001
Incontra Kaori, giovane ballerina, che diviene la sua musa.

2004
Travis Klose realizza Arakimentari, un documentario che presenta l’opera di Araki in relazione alla cultura giapponese con commenti di Björk,Takeshi Kitano e Daido Moriyama.

2005
L’importante retrospettiva itinerante Nobuyoshi Araki: Self, Life, Death viene inaugurata alla Barbican Art Gallery di Londra.

2008
In autunno Araki scopre di avere un tumore e subisce un intervento.

2010
Araki documenta la malattia e la scomparsa della gatta Chiro avvenuta il 2 marzo.


Dal catalogo che accompagna l’esposizione “Araki Love and Death”

Nobuyoshi Araki, tre viaggi sentimentali

Fuyumi Namioka

Quando discute delle sue fotografie, Nobuyoshi Araki cita ripetutamente alcuni termini. Molti di questi fanno libero uso degli omofoni, numerosissimi in giapponese, una lingua radicata nella parola scritta nella forma dei caratteri cinesi basati sui simboli. Spesso Araki conferisce loro significati freschi, nuovi, che ci sconcertano “sostituendo” i concetti che già esistono dietro quei termini. È un artista che lavora con le immagini, ma è anche un maestro nel modificare con destrezza i significati delle parole mantenendone la pronuncia originale. Un esempio particolarmente impressionante è l’uso che fa della parola seiyoku (desiderio di vita), un gioco di parole basato sulla scrittura di sei con un carattere diverso che ne converte il significato in “desiderio di sesso”. Questa sostituzione dimostra con grande maestria come i due seiyoku siano intercambiabili. In altre parole mostra come il desiderio di vita emerga dal nostro desiderio sessuale. Poiché queste e altre parole coniate usando degli omofoni hanno la stessa pronuncia delle parole su cui si basano, mantengono una parte del significato delle parole originali, generando un potente metalinguaggio in cui ogni parola diventa estremamente ambivalente, nel senso che possiede due significati caratterizzati dalla stessa forza.

La sostituzione leggermente forzata di questi due significati richiama alla mente anche la parola libido, uno dei concetti fondamentali della psicologia freudiana. Il momento in cui il desiderio di vita cresce più intensamente che mai non è altro che quello in cui si affronta la morte (propria o di altre persone). Qui il sesso si manifesta in relazione alla morte, benché sarebbe forse più preciso descriverlo come un rapporto ciclico in cui il sesso produce la vita, alla fine della quale arriva la morte, che è nuovamente seguita dalla nascita della vita attraverso il sesso. Araki esprime questo concetto servendosi di un’altra parola coniata basandosi sul suo modo inimitabile di giocare con le parole: Erotos (una combinazione di Eros e Thanatos).

A partire da Freud, il concetto di “sesso e morte” si è consolidato come parte delle nostre vite quotidiane. È stato dopo aver fotografato sua madre da morta che Araki sentì intensamente e per la prima volta il desiderio di vita che, in seguito a un lutto, sembra crescere in noi attraverso il sesso. Non appena pensò di aver fotografato tutto ciò che avrebbe mai potuto fotografare e dopo essere quasi stato sopraffatto da un intenso senso di vuoto nel rendersi conto che la sua vita come fotografo stava giungendo alla fine, incontrò una spogliarellista (ha detto più volte che “la fotografia non è fatta che di incontri”) e sentì l’impulso di fotografare ogni particolare del suo corpo nudo, riacquistando così un forte desiderio di vita. Araki ha interpretato tutto questo come un grande ciclo che conduce dalla vita alla morte e di nuovo alla vita attraverso il sesso. È anche giunto alla conclusione che l’amore e la morte nelle nostre vite generano inevitabilmente il concetto di sentimentalità (concetto che è stato completamente rinnegato con il modernismo). I sentimenti legati all’amore si innescano quando temiamo che questo possa andare perduto, quando abbiamo delle premonizioni, mentre i sentimenti riguardo la morte nascono quando temiamo di poter perdere per sempre qualcuno o qualcosa a noi molto caro. Qui la vita è vista come un’occasione per il ripetersi ciclico di questi sentimenti. Ed è proprio questa vita a costituire il concetto del “viaggio” di Araki.

Finora, Nobuyoshi Araki ha presentato quattro collezioni fotografiche con il titolo Sentimental Journey (Sentimental Journey del 1971, sulla sua luna di miele con Yoko Aoki; Sequel: A Sentimental Journey, Okinawa, dello stesso anno, realizzata in concomitanza con la campagna per il ritorno di Okinawa sotto il controllo giapponese quando Araki lavorava per l’agenzia pubblicitaria Dentsu; Sentimental

Journey / Winter Journey, del 1991, che trattava della morte di Yoko, e Sentimental Journey / Spring Journey, del 2010, che tratta della morte della gatta di Araki, Chiro). Fatta eccezione per la collezione inerente la campagna per il ritorno di Okinawa, i “viaggi” che descrivono sono momenti incredibilmente importanti nella vita del fotografo. Questo è vero in particolare per Sentimental Journey / Winter Journey, per la quale Araki ha passato circa sei mesi a fotografare la fine della sua amata moglie, Yoko Aoki, e che può verosimilmente essere descritta come il nucleo della sua trilogia. Le fotografie di questa serie costituiscono una sorta di diario, con l’indicazione, in ciascuna foto nell’angolo in basso a destra, della data che scandisce inesorabilmente lo scorrere del tempo verso la morte di Yoko in un modo che tocca il cuore. Queste date sembrano enfatizzare ulteriormente una delle caratteristiche della fotografia, ossia quella di imprimere le circostanze nella nostra memoria (infatti, nelle sue varie serie-diario, Araki spesso impiega la tecnica di trasformare foto reali in finzione attraverso il semplice atto di scambiare le date, una mossa che ricorda i suoi particolari giochi di parole. Inoltre, l’artista stesso si riferisce a questi atti di contraffazione che trasformano la realtà in finzione usando la parola “falsità”).

Delle varie fotografie in bianco e nero di Sentimental Journey / Winter Journey, la più sorprendente è probabilmente quella che ritrae il viso della defunta Yoko, che giace come una reliquia in una bara sepolta sotto una massa di fiori bianchi di fulgida bellezza. Forse perché lo scatto è stato fatto da vicino usando il flash, il suo volto sembra brillare di una luce più bianca del normale. Gli occhi e la bocca serrati contrastano decisamente con il suo viso bianco, enfatizzando il fatto che, in effetti, non sta dormendo e non si sveglierà mai. Anche le mani delle persone intorno a lei, appendici di maniche nere, danno vita a un contrasto con il suo volto pallido, suscitando un sentimento di dolore profondo. Dopo aver osservato quest’immagine sublime per qualche tempo, ho compreso che essa racchiude insieme il passato e il futuro.

Nel testo in cui riflette sulla luna di miele di cinque giorni a Kyoto, Yanagawa e Nagasaki che ha ispirato il primo Sentimental Journey, un’opera che ha quasi simboleggiato l’inizio di una nuova vita, Yoko Aoki commenta la stupefacente foto che la ritrae rannicchiata mentre sonnecchia in una barca che sta percorrendo un corso d’acqua a Yanagawa (questa foto le piaceva più di qualunque altra) come segue: “Lentamente, lentamente, il vecchio spingeva la barca in avanti con un bastone. Di quando in quando passavamo sotto un ponte di legno. Quei ponti erano terribilmente bassi. E così ogni volta che ci avvicinavamo a uno il vecchio ci diceva ‘Abbassatevi’... Era così piacevole stare sdraiata che sono rimasta distesa e ho iniziato ad appisolarmi mentre mi abbandonavo allo scorrere del fiume, così mi sono piuttosto spaventata sentendo l’improvviso batter d’ali (di un uccello)”. Lo stesso Araki osserva: “È rannicchiata come un feto, non pensate? Sta solo facendo un pisolino perché è stanca, ma l’impressione è quella di una barca della morte. Ripensandoci adesso, è quasi come se con la nostra luna di miele stessimo cominciando un viaggio verso la morte”. Qui il fotografo parla di una “barca della morte”, ma la barca è una metafora per la bara che contiene il corpo di Yoko. Nell’immagine della moglie custodita in una bara circondata da fiori e dalle mani di persone addolorate si può ritrovare quella foto di tanti anni prima che la ritrae rannicchiata in quella piccola barca come un “feto” addormentato. È questo l’elemento del passato che ho visto nella foto di Yoko Aoki che giace nella sua bara. Per quanto riguarda l’elemento del futuro, si tratta del volto giovane e bianco di Chiro sulla copertina della copia di Chiro, My Love poggiata discretamente accanto al viso di Yoko dentro la bara.

Davanti a una foto scattata nel 1865 che ritraeva un condannato giovane e bello in attesa di essere giustiziato, Roland Barthes restò estremamente impressionato nel rendersi conto di come il passato e il presente potessero esistere fianco a fianco in un’unica immagine: nel momento in cui quella foto era stata scattata, il condannato era letteralmente sul punto di morire mentre per noi che la guardiamo oggi lui è già morto. Inoltre, riferendosi al ritrovamento di una foto di sua madre da bambina, il critico francese scriveva nel suo celebre libro La chambre claire (1980): “Sta per morire: come lo psicotico di Winnicott, io tremo per una catastrofe che è già accaduta”. Aggiunge che ogni foto è una catastrofe allo stesso identico modo, che il soggetto sia già morto o no. Guardando la foto scattata alla moglie di Araki in un pigro pomeriggio di luglio mentre sonnecchia rannicchiata in una piccola barca in uno scenario da paradiso terrestre, mi tornano in mente queste parole di Barthes. Anzi, proprio come Araki stesso ha presagito guardando questa fotografia qualche tempo dopo: “Si era già avviata sulla strada della morte e ora è già morta”. Inoltre, è come se quest’immagine estremamente serena, colma di un senso di felicità, rappresentasse la figura di Yoko dopo la morte. Fa pensare quasi istintivamente: “Dopo la morte è partita per un viaggio sentimentale verso uno dei periodi più felici della sua vita, quel pigro pomeriggio alla fine della stagione delle piogge, quando il sole si riversava luminoso sulla terra, un pomeriggio trascorso facendosi trasportare dolcemente dalla corrente di un fiume in una piccola barca in mezzo a boschetti permeati dell’aroma caldo e umido della vegetazione, abbandonandosi allo scorrere del fiume e ascoltando lo sporadico suono del palo manovrato dal vecchio barcaiolo che colpiva l’acqua e degli uccelli che battevano le ali”.

Parlando di dolore, la stessa serie include un’altra immagine particolarmente memorabile, che immortala il volto di Yoko novella sposa durante la sua luna di miele. La sua espressione nella foto scattata sul treno ad alta velocità in viaggio per Kyoto sembra realmente carica di un dolore profondo. Si potrebbe quasi dire che richiama alla mente le espressioni profondamente tristi dei volti della Madonna e del giovane Gesù che profetizzano la propria morte nei dipinti di Madonna con Bambino realizzati in grandi quantità dal periodo medievale fino al Rinascimento. In questo modo, i due viaggi sentimentali di cui abbiamo parlato finora sembrano invocarsi e rispondersi a vicenda attraverso un intervallo di vent’anni. Il primo era un viaggio verso la vita (Summer Journey), mentre quello successivo era un viaggio verso la morte (Winter Journey). Nel periodo intercorso Araki ha intrapreso diversi viaggi e ha continuato a produrre un capolavoro dopo l’altro come artista (come ha detto più e più volte, per un artista la fotografia è un viaggio).

A marzo 2010 si è verificato un altro evento decisivo nella vita di Nobuyoshi Araki: la sua adorata gatta Chiro, che aveva vissuto per ventidue anni, molto oltre la normale aspettativa di vita dei gatti in termini biologici, si stava avvicinando alla fine della sua esistenza. Originariamente Chiro era stata regalata a Yoko Aoki dalla madre, nel 1988. Yoko è morta nel 1990, quindi per due anni la gatta ha vissuto con gli sposi. Araki, che fino ad allora aveva odiato i gatti, dice di essere stato affascinato da Chiro dal momento in cui ha posato lo sguardo su di lei. Tornando con la mente ai momenti che loro tre hanno passato insieme, Araki dice: “Quando Yoko era viva Chiro era la nostra bambina e dopo la sua morte Chiro era Yoko, così è come se avesse rivestito un doppio ruolo”. Descrive la straordinaria capacità di Chiro di trasformare il mondo inanimato in cui Araki viveva dopo la morte di Yoko in un Eden pieno di vita, come se con la sua mera presenza Chiro riuscisse a convertire il suo balcone che era “diventato una rovina” in “qualcosa di simile a un Eden”.

Per ironia, Nobuyoshi Araki ha pubblicato un altro viaggio, Sentimental Journey / Spring Journey, vent’anni dopo la morte di Yoko (Winter Journey è stato pubblicato nel 1991, venti anni dopo il primo Sentimental Journey pubblicato nel 1971, mentre Spring Journey arriva venti anni dopo la morte di Yoko). Questa nuova serie di fotografie presenta immagini sublimi di Chiro scattate in un periodo di circa tre mesi fino alla sua morte. Le date, che erano una caratteristica delle fotografie che documentavano la morte di Yoko, ora sono assenti e, mentre sembra che il tempo quasi non esista, l’aspetto di Chiro che muta con l’approssimarsi del momento della morte è ritratto in maniera vivida. Inoltre, dalla serie di primi piani di Chiro scattati immediatamente prima della sua morte si riceve quasi l’impressione che la gatta stia tornando alla sua infanzia. In primo piano, in mezzo all’inquadratura, i suoi occhi sono estremamente puri e innocenti, e tuttavia gli stessi occhi vagamente acquosi hanno un’aria triste e tranquilla quando guardano direttamente verso l’obiettivo (verso Araki). L’angolazione della macchina fotografica che Araki usa in questi momenti rappresenta più fedelmente che mai la vera prospettiva psicologica e fisica del fotografo. Per di più, immortalata attraverso questo impiego frequente dei primi piani, l’espressione di Chiro dà vita a una sorta di rapporto simmetrico, quasi come uno specchio che riflette la psiche dell’artista. È come se Chiro stesse sbirciando in uno specchio. E tra il suo muso e lo specchio c’è la macchina fotografica. Si potrebbe quasi dire che queste fotografie rappresentino i pensieri dell’artista riguardo la morte.

Queste varie immagini contrastano mirabilmente con quella straordinariamente vivida di Chiro di venti anni prima posta accanto al corpo di Yoko Aoki (questo è uno degli elementi che alludono al futuro nella foto della bara di Yoko sepolta dai fiori). Questo ci fa comprendere come le fotografie facciano molto di più che semplicemente “riprodurre” ed esporre alla vista parti di realtà, perché legano anche certi momenti della fase di preparazione alla morte con momenti completamente distinti. Inoltre, nonostante il fatto che Chiro riesca a stento a tenere gli occhi aperti, riusciamo a vedere che quella scintilla che una volta era una caratteristica del suo sguardo non è affatto scomparsa. Per di più, come accennato sopra, questa foto dà espressione alla straordinaria capacità di una singola fotografia di ritrarre il passato e il presente descritta da Barthes, in questo caso il periodo che precede e quello che segue la morte. Il futuro cui si allude in quella foto della serie Winter Journey che ritrae la bara di Yoko, viene ricreato qui. Mi riferisco alla foto dell’adorata gatta di Araki sdraiata placidamente circondata da fiori, un’immagine che provoca una sensazione di déjà vu. Una sensazione simile viene suscitata dalla vista di Chiro adagiata nella bara con le zampe distese, e dalla vista delle sue ceneri e ossa dopo la cremazione. L’ultima è quella di un mondo in cui tutto è grigio, vagamente somigliante al vuoto che si manifesta nelle stupefacenti nuvole stagliate contro il cielo cupo delle fotografie che Araki ha scattato più volte dal balcone di casa (un luogo che per Araki era come un microcosmo in cui aveva vissuto momenti felici insieme a Yoko, poi permeato di nuova vita dalla sua adorata gatta Chiro, dopo la morte di Yoko). In un altro esempio dei suoi inimitabili giochi di parole, il fotografo talvolta fa riferimento al cielo come sora, e altre volte come ku, una lettura alternativa dello stesso carattere che indica il cielo, che può avere anche il significato di “vuoto”. In altre parole, quando usa il termine sora, lo si può interpretare come un’allusione al mondo della rivelazione “dall’altra parte” del mondo reale, che comprende il balcone da cui sta scattando le fotografie, e quando usa ku lo si può interpretare come un’allusione al nulla, alla morte, al mondo dopo la morte. A questo proposito le immagini di Araki richiamano alla mente le fotografie caratteristiche di Tokyo Story di Yasujiro Ozu. Negli ultimi tempi, tuttavia, il modo di Araki di fotografare il cielo è cambiato radicalmente. Secondo l’artista questo è avvenuto perché per lui il cielo non rappresenta più un mondo di vuoto, ma si è quasi tramutato esso stesso in una sorta di pellicola fotografica. Se è così, forse, possiamo anche interpretare la foto dei resti grigi di Chiro come una “pellicola” su cui saranno impressi nuovi segni di vita. La serie di fotografie scattate dopo la morte di Chiro dal titolo Chiro aishi (o Chiro Love Death) – benché, in coerenza con i giochi di parole di Araki, l’aishi del titolo sia scritto con i caratteri di “amore” e “morte”, invece delle combinazioni più comuni di due caratteri che significano “storia triste” o “elegia” – comprende diversi scorci della casa di Araki che una volta erano i preferiti di Chiro. Queste fotografie rivelano a un punto quasi pietoso i sentimenti di Araki mentre affronta la vita di tutti i giorni nella sua casa realmente vuota. Tuttavia, Sentimental Journey / Spring Journey si chiude con una fotografia scattata a Chiro quando era ancora viva che mostra come infondesse vita in quel balcone. Sembra quasi un’allusione alla vita dopo la morte.


Dal catalogo che accompagna l’esposizione “Araki Love and Death”

Araki Love and Death

Marco Franciolli

La mostra Araki Love and Death si inserisce in un’iniziativa multidisciplinare – che vede coinvolte numerose istituzioni attive a Lugano – dal titolo Nippon. Tra mito e realtà: arte e cultura dal Paese del Sol Levante. Nella sua strutturazione, Nippon dimostra con efficacia quali potenzialità si possano esprimere attraverso l’organizzazione coordinata delle attività culturali, fornendo un’indicazione chiara dell’indirizzo assunto nell’impostazione della politica culturale cittadina.

Dall’insieme delle proposte, che spaziano dal Giappone tradizionale a quello contemporaneo, si possono evincere i tratti fondanti e le singolarità che differenziano la cultura nipponica dalle altre, da quelle occidentali come da quelle asiatiche. Nobuyoshi Araki è in tal senso esemplare, egli è al contempo un eminente protagonista della fotografia contemporanea internazionale e allo stesso tempo la sua produzione fotografica è profondamente radicata nelle peculiarità della cultura e della realtà giapponese.

L’opera di Araki, complessa e inclassificabile, è frutto di un approccio esistenziale al mezzo fotografico; l’obiettivo è il vero tramite con il reale, strumento attraverso il quale vivere, interrogare e consumare la propria esistenza. E in Araki la voracità esistenziale è davvero smodata e si traduce in un atto fotografico bulimico.

Una straordinaria prolificità creativa che l’esposizione di Lugano rende efficacemente presentando

quasi duemila stampe fotografiche e tremila Polaroid.

Le innumerevoli fotografie che si susseguono sulle pareti delle sale espositive stravolgono i generi e i codici linguistici dell’estetica fotografica, l’affollamento di immagini genera uno straniamento soprattutto in chi, non giapponese, fatica a districarsi fra elementi semantici e simbolici della cultura nipponica presenti in gran numero nelle fotografie di Araki. La modalità espositiva elaborata dall’artista, che trova riverbero nell’impostazione del catalogo che accompagna la mostra, enfatizza la grande libertà del fotografo nei confronti delle questioni tecniche e stilistiche. Stampe in bianco e nero e a colori, formati sempre diversi, processi di stampa che saturano i colori conferendo una presenza iperrealista al soggetto. Eppure, malgrado

l’eterogeneità delle scelte formali, le sue immagini rimangono inconfondibili; una fotografia di Araki è pressoché immediatamente identificabile.

Il progetto espositivo ha preso forma in sintonia con gli stati d’animo del fotografo, la sequenza definitiva dei cicli che compongono la mostra riflette lo sguardo che oggi Araki porta sul lavoro di una vita. I capitoli della mostra scandiscono metaforicamente l’esistenza dell’autore, le passioni, le grandi gioie e i drammi, l’intenso rapporto con la sua città, Tokyo. Dal notissimo ciclo Satchin del 1962-1963 all’inedito Dead Sky, del 2010 la mostra Araki Love and Death traccia esaustivamente il percorso creativo di Araki, offrendo all’osservatore una rara opportunità per scoprire la complessità e il fascino dell’opera di un maestro della fotografia contemporanea.

Desidero esprimere profonda gratitudine a Nobuyoshi Araki, per aver accettato l’invito a esporre al Museo d’Arte di Lugano e per la generosa disponibilità dimostrata in tutte le fasi di preparazione della mostra.

A Bruno Corà, già direttore del Museo d’Arte di Lugano e ideatore del progetto espositivo, rivolgo un ringraziamento particolare. Il suo testo in catalogo offre una illuminante chiave di lettura e al tempo stesso estrinseca la dimensione estetica unica e irripetibile dell’opera di Nobuyoshi Araki.

Un vivo ringraziamento a Fuyumi Namioka, per aver svolto con efficacia un prezioso ruolo quale tramite con l’artista e per l’attivo contributo all’organizzazione dell’evento espositivo.

Ringrazio gli autori in catalogo per il loro contributo critico.

Sono grato a Natsuko Odate per la collaborazione nell’organizzazione della mostra.

Infine ringrazio Francesca Bernasconi, collaboratrice scientifica del Museo d’Arte, per aver condotto a buon fine, con grande impegno e competenza, la mostra e il catalogo.


Dal catalogo che accompagna l’esposizione “Araki Love and Death”

Nobuyoshi Araki: la realtà appresa dalla fotografia

Bruno Corà

Incontro con un occhio sempre aperto

Attendevo con ansia una nuova prova di Araki, qualcosa che dimostrasse, con un ennesimo segno, ciò che dal primo istante in cui ho visto una sua fotografia, una dozzina di anni fa, ho pensato della personalità artistica che l’aveva scattata: doveva essere un genio, un artista saturnino, evidentemente un melanconico. Alcuni cicli recenti del suo lavoro, in particolare Sentimental Journey / Spring Journey, mi hanno dato la conferma, se mai ve ne fosse stato bisogno, di quella

sua qualità. Le foto dedicate alle ultime settimane di vita del suo amatissimo gatto Chiro, incluse tra le numerosissime altre in mostra a Lugano, sottolineano molti lati del carattere di questo artista, lucido interprete a tutto campo di una sensibilità non solo culturalmente legata al Giappone e all’Oriente, ma anche ai gradi alti e bassi della vita e delle situazioni estetiche ricavate immergendosi completamente nell’esistenza quotidiana senza escludere eventuali lati drammatici, disagevoli, sconvenienti o anche “duri” e da affrontare, in senso individuale.

Dopotutto, nel rivendicare personalmente il progetto di questa mostra articolata nei cicli più significativi della sua produzione fotografica, mi ascrivo il diritto di un punto di vista critico sull’opera di Araki che affranca altri dalla responsabilità culturale e lascia alcuni di noi e l’artista stesso autori esclusivi della proposta espositiva. Ciò viene affermato in tale circostanza, poiché, com’è noto, l’opera di Araki non è esente dal suscitare reazioni e censure. Ma uno stesso clima di apprensione si era creato prima della grande mostra retrospettiva di Robert Mapplethorpe, eccezionale artista la cui mostra luganese si è poi confermata un autentico successo internazionale. Araki, analogamente a Mapplethorpe e a pochi altri fotografi contemporanei, pur in modi del tutto diversi tra loro, ha assunto il rischio di impegnarsi, con la fotografia, a gettare uno sguardo ripetuto, frontale, senza timore, come fanno i bambini e gli artisti autentici, talvolta i poeti, sulla realtà, fosse anche quella scomoda o insidiosa di ogni giorno, come pure quella lieve o banale, drammatica o cinica, che la vita impone. Insieme a quello sguardo Araki non ha rinunciato all’attività immaginaria, sognatrice, capace di inventare e suscitare col desiderio l’irrealtà quotidiana cioè l’altra faccia della medaglia esistenziale, appannaggio dei visionari. Attiva su questi due fronti, la sua energia vulcanica ha messo al mondo, cioè in immagini, un vastissimo repertorio fotografico dal qualeemergono, inconfondibili per il linguaggio da lui usato, comportamenti antropologici, luoghi, ritratti e autoritratti, il fervore nelle città, la natura, il corpo, il cibo, le nuvole, gli oggetti, i fiori, l’amore e la morte.

Come ho ricordato in altra circostanza1 è stato nel corso di una visita presso la collezione dell’Hara Museum of Contemporary Art di Tokyo che ho visto per la prima volta una fotografia di Nobuyoshi Araki. L’impressione profonda che ne ricavai era dovuta in parte al soggetto e in parte alla collocazione dell’opera. Nel gran formato bianco e nero di quella fotografia era possibile osservare una figura femminile, seminuda, legata e sospesa a una trave nell’interno di un ambiente tipico del Giappone, luminoso e ordinato e nel quale il contrasto tra la qualità di quello spazio e la linea spezzata degli arti vincolati, nonché dell’abito di seta, un kimono, che pur la donna ancora indos-sava, appariva di grande effetto. Oltretutto quell’immagine, con una evidente valenza rituale, era offerta al visitatore sotto una robusta edicola in legno, seppur munita di due falde di copertura, tuttavia all’aperto, nel giardino del museo. E sorprendeva anche quella collocazione, pensando non solo alla fragilità dell’oggetto esposto, ma anche alla qualità della posa che, per quel dato di ritualità e direi anche di teatralità, si sarebbe immaginata in luogo chiuso quale un boudoir o un palcoscenico. Quella ostentazione estraniante in verità fu un dato che doveva divenire sintomatico ed emblematico con l’andar del tempo e delle occasioni, non solo di altre opere di Araki che ho avuto modo di vedere, ma anche di altri artisti giapponesi che ho osservato, da allora con maggiore attenzione.

 

I rapporti con la tradizione

Alla fine del 1999, si è tenuta a Milano la grande mostra di Katsushika Hokusai, uno dei più grandi pittori dell’Ukiyo-e, insuperato anche negli shunga dopo le grandi creazioni erotiche di Kitagawa Utamaro e Hishikawa Moronobu. Alla domanda che mi posi allora davanti alle opere di quel maestro su quale fosse stato lo studium (Barthes) della fotografia di Araki che mi aveva sicuramente conquistato in quell’incontro con la sua immagine, posso tranquillamente rispondere che fu l’aver colto in essa un sentimento di essenziale continuità nel rinnovamento di una grande tradizione alla quale Araki recava un contributo efficace, singolarissimo e sicuramente proiettivo. La fotografia di Araki merita infatti un’osservazione a tutto campo per come essa attraversa “luoghi” estetici assai diversi, sia del passato sia inerenti la nostra epoca, le sue contraddizioni, la sua insostituibile pregnanza e unicità. A partire da tali esigenze ho pensato che la mostra di Lugano, come la grande retrospettiva italiana tenutasi a Prato nel 2000, dovesse rendere conto dell’articolazione eccezionale dell’opera di Araki, offrirne non semplicemente alcuni aspetti ma, una tantum, l’essenza nella molteplicità delle sue attenzioni e della ricchezza del suo “racconto”. Così, nella scelta delle opere fotografiche la mostra è stata concepita come un viaggio in cui le stazioni principali contribuiscono a tracciare il vero profilo di questo artista e la profondità di eco che la sua opera traduce dal tempo originario della sua cultura sino a oggi.

In questo modo, attraverso centinaia di stampe molto spesso frutto di un vero set di posa – al quale sono stato invitato da Araki ad assistere, in un’occasione in Olanda, ad Amsterdam – ma anche di scatti compiuti velocemente con la Polaroid di fronte all’infinita quantità di dettagli che offre la città, la natura, il giorno, la notte, siamo stati in grado di rendere evidente come questo sguardo contemporaneo, non certo solo epicureo ed edonista, ma soprattutto drammatico, erotico e poetico, sviluppa una delle più disincantate ma appassionate riflessioni estetiche sul mistero della persona, sulla bellezza e la rovina, sull’enigma dell’alterità animale e sul sociale urbano, sulla natura e sulla cultura delle metropoli, infine sulla meraviglia e sulla stupefazione davanti al teatro degli esseri nel quotidiano.

 

Archetipi, modi e relazioni

La figura femminile sospesa mediante vincoli e nodi aveva suscitato in me un evidente richiamo a una serie di archetipi e di modi formali che nel tempo si sono manifestati con diverse valenze estetiche.

Nel XX secolo, a partire da quegli esempi di forme sospese al soffitto realizzate da Marcel Duchamp, (1915), Hat Rack (1917), la concezione dell’opera vincolata e sospesa s’era fatta strada non senza un complesso retroterra di connessioni pertinenti l’ambito fisico, metafisico, etnico, estetico e psicoanalitico. La figura o l’oggetto appesi o “impiccati” nella cultura visiva europea precedente la formulazione dell’opera di Duchamp, di Aleksandr Rodchenko, di Bruno Munari e Alexander Calder si ritrova nella pittura di Pisanello2 e in altri esempi del Quattrocento. È interessante osservare come, all’indomani della morte della propria moglie Yoko Aoki nel corso dell’estate 1990, Araki esegue un proprio autoritratto realizzato dipingendo sulla tavoletta per tagliare il pane usata dalla moglie, supporto rigido che poi “impicca” con la cintura (obi) di Yoko e fotografa presentando l’opera con il seguente commento: “Avendo perduto sua moglie, Araki si suicida per impiccagione il 7 luglio 1990”.

A risalire indietro nel tempo, a documenti o tradizioni che si ricollegano nelle grandi civiltà asiatiche, egizie e maya, relative all’arte cartomantica, si trova un esempio particolare in quegli arcani maggiori dei tarocchi, che tra le altre carte annoverano quella dell’Impiccato. Nei Tarocchi di Marsiglia (XVIII secolo) o, ancor prima, nei Gringonneur (1392), l’Appeso, con la postura delle gambe in assetto geometrico spezzato, precede l’arcano maggiore della Morte. La carta segnala i grandi cambiamenti della vita, o anche le grandi prove che portano alla crescita interiore. Spesso essa è evocativa dell’abbandono o della perdita di una persona cara. La carta inoltre “si presenta anche di fronte a crisi depressive [...] all’esagerato misticismo con il possibile allontanamento dalla realtà. Può indicare anche la sublimazione o l’esaltazione irreale di un amore platonico. Lo stato di impotenza che segnala può essere anche indice di difficoltà nell’inserimento sociale”.

Se si fa riferimento alle significative perdite subite da Araki nel 1967, nel 1974, nel 1990 e nel 2010, rispettivamente del padre, della madre, della moglie Yoko e dell’amatissimo gatto ventenne

Chiro, si farebbe largo, in un’ipotesi di lettura analitico affettiva, l’elemento simbolico dell’archetipo del corpo legato, sinonimo di quanto l’arcano dell’Appeso evoca. Ma già Mircea Eliade si era interrogato su quale fosse “il contenuto magico-religioso di tutti i miti, i riti e le superstizioni incentrati sul motivo della ‘legatura’”. Egli, attraverso un esame ampio delle maggiori credenze relative al “dio legatore” e al simbolismo dei nodi presso molte popolazioni, era giunto ad affermare, grazie anche alla verifica etimologica, che “in svariate famiglie linguistiche le parole che designano l’azione di ‘legare’ servono anche per esprimere l’ammaliamento [...]. Tutte queste etimologie confermano che l’azione di legare è essenzialmente magica”.

Tornando al repertorio delle esperienze artistiche nel XX secolo appare interessante, accanto alle opere di Duchamp, segnalare quei lavori di Man Ray che alla legatura fanno ricorso quale elemento significativo della creazione plastica. Mi riferisco a L’enigme d’Isidore Ducasse (1920) e alla Venus restaurée (1936-1971) in cui il fitto incrociarsi di tensioni di una corda vincola le due forme nelle due opere differentemente. D’altra parte, il precedente di Man Ray appare ricorrente per quell’eguale interesse mostrato dal fotografo americano, sin dal 1920, per il corpo femminile, ripetutamente al centro del suo studio sulla luce e sulla solarizzazione delle forme. L’album privato di Man Ray offre un repertorio straordinario di Models (1920-1940), che sembra precedere, in modi assolutamente personali e diversi, la stessa strada percorsa da Araki. Considerati i tempi, alcune audaci pose di Man Ray non appaiono meno provocatorie di quelle, successivamente da taluno ritenute tali, di Araki. Accanto a queste considerazioni, nell’osservazione di quell’opera vista per la prima volta all’Hara Museum of Contemporary Art vi fu una più profonda “puntura” relativa al sentimento di sottile ma simulato pathos che la figura dunque non esprimeva realmente ma “interpretava”, come in un’azione drammaturgica sapientemente predisposta. La pena che sembrava essere inflitta a quel corpo – in apparenza un bondage che tuttavia Araki preferisce definire col termine giapponese kinbaku – era evidentemente di natura sadica, ma contrastava con il nitore dell’immagine, con la stessa compostezza della pettinatura e del trucco della modella, con la qualità e lo stato impeccabile dell’abbigliamento, insomma con aspetti che rivelavano che la figura femminile in vincoli aveva certamente aderito alla “posa” senza aver subito alcuna violenza, come farebbe dunque un’attrice sul set o l’agape neofita di un rituale misteriosofico.

L’osservazione successiva di molte altre foto di quel tipo confermava il carattere rituale delle pose, finalizzato alla creazione di un’immagine che, seppur inquietante, non poteva essere considerata allarmante. In alcuni casi, la presenza accanto alla figura legata, sospesa o no, di elementi tecnici del set di posa, quali lampade, cavalletti o altro, dichiara esplicitamente l’intenzione simulativa dell’azione di Araki. In questo senso, in buona parte dell’opera di questo fotografo s’affaccia un’esponenza linguistica di costruzione dell’immagine dichiarata e didascalica piuttosto che di carattere istantaneo. Ma, com’è noto, vi è anche un repertorio di Araki meno “rituale in senso teatrale”, più crudo e in presa diretta con la realtà che tuttavia si distingue dalla gran parte della produzione fotografica pornografica. Quando Araki indugia e s’attarda sull’atto amoroso, nella sua fotografia emerge o la vistosa qualità estetica che si osserva negli shunga dei citati maestri o un’in-fantile platealità a sfondo ludico, o persino un distacco ironico che porta l’osservatore a un antivoyerismo dinanzi alla più estrema delle mise en scéne ideate dall’artista. Come negli shunga, il carattere caricaturale degli organi sessuali macroscopizzati o l’impiego di corpi estranei con i quali l’amante si intrattiene con l’amata (particolare così sovente anche nelle “storie” di Araki che perciò appaiono ricalcare un’iconografia a lui ben nota proveniente dai maestri dell’Ukiyo-e) è talmente ostentato che non lascia dubbi relativi a una consapevolezza filologica. La bellezza dei corpi, la loro fragranza, la loro esibizione, l’offerta delle parti intime delle modelle o dei modelli reca a una astanza senza sentimento di oscenità che dall’autore delle immagini si trasmette agli osservatori con obiettiva naturalezza. Analogamente alle stampe shunga, in ultima analisi, nelle foto di Araki che ritraggono il corpo femminile si possono “contemplare i nostri impulsi erotici ‘senza terrore’ come qualcosa che si è oggettivato fuori di noi senza travolgerci; possiamo ‘vedere’ fino in fondo i nostri desideri più libertini senza timore di essere puniti. La ‘soppressione del limite’, che è uno dei caratteri distintivi dell’erotismo, avviene attraverso un processo estetico che svuota ogni atto raffigurato del suo carattere trasgressivo”.

La finalità della suggestione erotica delle fotografie di Araki si coniuga così con altri esempi notevoli della cultura visiva giapponese. Penso alla fiorente produzione degli emakimono dipinti durante il periodo Kamakura (1185-1333), in cui si fondono i temi erotici alla satira di costume, ma anchea opere assai più vicine a noi come quelle di Hashiguchi Goyo, finissimo artista attivo fino al 1921, morto quarantenne il cui interesse per la figura femminile e la focalizzazione di parti del corpo, quali il pube e il sesso, lo pone come anello di congiunzione tra le opere dei maestri degli shunga e l’opera di Araki.

La mostra ordinata a Lugano è la più vasta realizzata da Araki in Svizzera e consta di migliaia di opere fotografiche appartenenti a cicli diversi dell’opera di questo maestro: dalle foto del ciclo Satchin (dal soprannome del bambino Sachio Oshimo che nel 1965 era stato ritratto col fratello Mabo in un’istantanea di sapore neorealista) ai Flowers, in cui si rinnova l’amore per i fiori – così profondo nella cultura giapponese, ma anche veicolo di allusioni sensuali – dagli Skyscapes alle migliaia di Polaroid, da quel Sentimental Journey / Winter Journey – struggente diario del rapporto con la moglie Yoko che ha vincolato e lasciato una traccia indelebile nella vita e nell’esperienza di Araki – fino ai lavori più recenti e al gruppo di foto Sentimental Journey / Spring Journey dedicate al proprio gatto Chiro da poco scomparso. Per quell’animale tante volte ritratto nel terrazzo di casa, saltellante tra il bestiario di plastica collezionato da Araki, d’inverno tra la neve e durante le calde estati giapponesi – e del quale Araki aveva messo il libro a lui dedicato Itoshi no Chiro (Chiro, My Love, 1990) nel feretro accanto alla moglie appena deceduta – Araki “scrive” con immagini vivide e commosse il suo più struggente testamento d’amore per un animale. La piccola bestiola appare smarrita e osservata dallo sguardo affettuoso di Araki che ne segue trepidante ma inflessibile il lento declino sino all’agonia, con ritratti che immortalano la docile bellezza e l’inesorabile consunzione dell’animale, fino allo stato scheletrico. Con queste pose Araki torna sul tema della morte verso una creatura a lui cara, sviluppando una riflessione visiva dolente e non meno drammatica che se fosse stata relativa a una persona.

In queste articolazioni vaste e ricchissime di spunti che mescolano il quotidiano al sentimento dell’infinita morfologia delle forme di vita e di morte, di azione umana e d’amore, l’opera di Araki diviene epica e il suo repertorio giunge a un’esponenza estetica capace di restituire il costume di

un paese, di una metropoli (Tokyo) e di un’epoca, quella degli ultimi quarant’anni che concludono
un secolo e aprono un millennio.

Una seducente melanconia vitale

Sottotraccia, nelle fotografie in mostra, si colgono elementi linguistici e temi appartenenti sia ai generi del fotoromanzo che a quelli della letteratura giapponese tradotta in lingua italiana, da Jun’ichiro Tanizaki a Yasunari Kawabata, a Yukio Mishima; così come si avvertono in molte immagini le stimmate di quell’imprinting che il neorealismo italiano – da Roberto Rossellini a Vittorio De Sica, entrambi molto amati da Araki in gioventù – ha lasciato nella sua fotografia in bianco e nero. Ma sarebbe limitativo sottrarre l’opera di questo grande fotografo a quel denominatore che pur la caratterizza in larga parte e l’accomuna a quella di altri maestri, efficaci interpreti contemporanei della sensualità e dell’eros: da Man Ray a André Kertész, da Robert Mapplethorpe fino a Nan Goldin. Accanto a loro, in modo diverso, scorre parallela una vena immaginaria che ha correlato la scrittura di Rabelais a quella di De Sade, quella di Guillaume Apollinaire a quella di Georges Bataille, fino a Mishima, con latenze artisticamente e letterariamente amorose-delittuose. Ma sono delitti-amori che verosimilmente attraversano da sempre la letteratura, l’arte e l’immaginario collettivo che gli artisti hanno la forza di evocare e rappresentare. Un’ulteriore riflessione si rende opportuna riguardo alla qualità estetica dell’opera di Araki in rapporto al carattere iki e al suo eventuale grado di presenza in quelle fotografie dedicate dall’artista alle gei she tuttora esistenti nelle grandi e piccole metropoli giapponesi. Anzitutto il termine iki è di decifrazione assai complessa in Occidente, perché si coniuga indissolubilmente con una “specifica natura etnica”. Kuki Shuzo, che ne ha analizzato meglio di chiunque il significato per far comprendere la difficoltà di tradurre il senso di questa parola nelle lingue occidentali, reca l’esempio del termine tedesco Sehnsucht, dalle complesse sfumature etniche. Tuttavia, a seguito del lungo percorso ermeneutico, lo studioso giunge ad affermare che a comporre l’essenza dell’iki concorrono la seduzione, l’energia spirituale e la rinuncia. Scrive Kuki Shuzo: “Quando dietro un sorriso leggiadro e seducente si sarà scorta la traccia quasi impercettibile di lacrime cocenti e sincere, solo allora si sarà riusciti a comprendere la verità dell’iki”. È a questo punto che sorge il quesito se nella fotografia di Araki, soprattutto quella dedicata alle geishe, sia presente il carattere iki oppure se esso ne sia consapevolmente assente per volontà dell’artista. Senza voler rispondere affrettatamente a tale interrogativo, avverto che Araki con la sua fotografia molto spesso accanto all’eros evoca thanatos e la “rinuncia”. Ma altrettanto sovente, nell’osservazione della fotografia di questo maestro, emerge un dato di sorprendente innocenza, di gioia, un élan vital, che suscita un’emozione tipica del trovarsi di fronte a una “cosa” stupefacente come se vista per la prima volta. Araki è l’ultimo osservatore de L’origine du monde (1866) di Gustave Courbet capace di sdrammatizzarne, con migliaia di scatti, la realtà misteriosa del soggetto. Tutto ciò viene suscitato in questo lungo viaggio come esito catartico di tante avventure e drammi veri o simulati che la fotografia di Araki ha fissato ed esorcizzato, dalla sofferenza, dalla malinconia, dai malesseri esistenziali e dagli inferni urbani, nel generale superamento verso il consapevole rinnovarsi dell’impulso vivente.


presenta l'iniziativa del
nuovo centro culturale LAC

Città di Lugano

Biografia di
Nobuyoshi Araki

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updated 02.02.23



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